Cinque regole per il mio voto
Mentre scrivo queste poche righe leggo che il notiziario della Protezione Civile di ieri riporta che ci sono stati altri 464 morti: con c’è traccia di questo numero sulle prime pagine dei giornali in edicola (in una giornata senza Repubblica, in sciopero per l’incredibile cacciata di un direttore, a seguito della riorganizzazione dell’azionariato che ha portato il giornale fondato da Scalfari nelle mani della Fiat, proprio nei giorni nei quali era stato minacciato di morte, alla vigilia dell’Anniversario della Liberazione), salvo sul Messaggero (in un minuscolo sommario su un trafiletto al centro della pagina). Per il resto non c’è nulla: 464 persone sono passate al Creatore a causa di questa pandemia ma i maggiori quotidiani in edicola, quelli che dovrebbero servire per formare l’opinione pubblica e che vengono letti di buon mattino in ogni rassegna stampa televisiva, hanno fatto spallucce e decretato che sono 464 individui che non meritano più nemmeno l’attenzione della prima pagina né il ricordo perenne a una popolazione che si appresta a ripartire, ribadendo che comunque ci sono loro da piangere, così come i 500 prima di loro il giorno prima e quello prima ancora, e ancora da quel maledetto 21 febbraio dal quale tutto è partito.
Pertanto, visto che di ripartenza bisogna pur parlare, ecco il mio piccolissimo pentalogo per le forze politiche affinché quando sarà possano ricevere serenamente il mio voto. Cinque piccole regole che si innestano su uno scenario di fondo e che riguarda l’ambiente, i cambiamenti climatici e il rapporto che abbiamo con la natura.
- Bandire la parola guerra: non siamo stati in guerra, né contro il virus né contro qualcuno. È stata una semplificazione giornalistica, propagandistica, ma anche basta: certo, rianimazioni e terapie intensive durante un conflitto si riempiono, così come ospedali da campo devono essere realizzati. Ma finisce lì l’analogia: le nostre infrastrutture, strade, porti e aeroporti, sono intatte e sono rimaste aperte. Nessuno le ha bombardate e nessuno ha sganciato bombe dai nostri cieli. Quindi, caro assessore Gallera che hai confrontato l’epidemia alla bomba atomica, fatti un favore: regalati appena possibile un viaggio in Giappone e vai a visitare Hiroshima e Nagasaki. Cerca di capire – se riesci perché ti assicuro che non sono mai riuscito a concepire cosa potesse voler dire spazzare via un’intera città in un istante – cosa significhi l’effetto dell’atomica sulla popolazione. Parla con qualche sopravvissuto: anche laggiù qualcuno lo trovi che ti racconti come si sia salvato (in alternativa, leggiti qualche reportage o il libro sul Giappone di Vittorio Zucconi).
- Ricominciare anziché ripartire: non sono molte le volte che mi trovo totalmente d’accordo con Fabio Fazio ma questa è una di quelle. Non dobbiamo ripartire da dove avevamo smesso, dobbiamo ricominciare, ricostruire la nostra vita e pensare la nostra società in altro modo. Se gli effetti economici sono effettivamente analoghi a quando si esce da un conflitto, è indubbio che come ricostruire è dirimente. Non ci sono infrastrutture danneggiate dai missili ma c’è qualcosa di più profondo: c’è una vastissima zona della nostra società che è stata totalmente devastata da questo virus. Non soltanto in termini di salute bensì di possibilità di vivere degnamente in un paese occidentale. Non è vero che il virus ha colpito tutti allo stesso modo, anzi. È fortemente vero il contrario: dopo la prima settimana di euforia, con canzoni e balli sui balconi e sui tetti, abbiamo tutti constatato cosa abbia voluto significare quarantena e cosa abbia comportato la serrata. Insomma il divario fra ricchi e poveri, fra benestanti e meno abbienti, fra tutelati e non tutelati, fra chi poteva continuare a lavorare e chi invece ha visto in un sol colpo spazzare via le proprie attività, si è accentuato in maniera drammatica. Persino fra chi possiede un’abitazione con un giardino o finanche un balcone e chi no. Per non parlare dei contraccolpi psicologici che tutti abbiamo subito. Da come si cominci a ricostruire sarà dirimente. Per quanto mi riguarda dico soltanto due cose: Sanità e Istruzione. Basta con i tagli alla sanità e alla scuola, massicci investimenti per la medicina, per la ricerca e per la formazione degli operatori di questi settori. E nella scuola serve soprattutto un intervento formativo e infrastrutturale per colmare l’enorme gap tecnologico e culturale che si è avuto all’interno della classe docente e soprattutto fra chi è meno abbiente e con meno disponibilità. E basta con il regionalismo spinto e i governatori: non è pensabile che su servizi essenziali, come scuole e sanità, ci possano essere 20 diverse organizzazioni e livelli di servizio. Infine lasciamo i governatori agli americani: da noi sono Presidente della Regione o della Giunta Regionale. Non governano molto e quello che governano talvolta lo devastano. Non abbiamo bisogno di altri 20 ministeri in concorrenza con quelli di Roma.
- Ripensare il Capitalismo: le previsioni economiche semestrali del PIL sono terrificanti. Questo capitalismo, così com’è, non funziona. Non può funzionare. Il mercato non si può mai autoregolare e lo ha dimostrato ogni volta durante le crisi finanziarie. Solo che in quei casi forse avvertiamo un fenomeno lontano, fatto di banche e di finanza: stavolta abbiamo visto cosa abbia comportato spostare significativi servizi dal pubblico verso il privato (vedi la sanità lombarda). Il Servizio Sanitario Nazionale, quello tanto bistrattato da governi di ogni colore negli ultimi dieci anni, si è rivelato essenziale per la vita di migliaia di italiani. Quindi basta dirottare finanziamenti verso la sanità privata: chi ha la possibilità economica se la paghi, lo Stato deve garantire a tutti i cittadini il miglior servizio sanitario possibile. Stesso dicasi per la Scuola Pubblica: basta finanziamenti alle paritarie, specialmente le scuole confessionali. Chi vuole un’istruzione privata ed erogata da istituti religiosi è libero di pagarsi la retta che vuole, ma non può pretendere che sia lo Stato, cioè la collettività, a investire danaro pubblico su un servizio essenziale che viene usufruito soltanto da una porzione della società e che comporta profitti ai privati. Non è più tollerabile l’assioma che si pubblicizzino i debiti e si privatizzino i profitti. So’ boni tutti a fare i capitalisti con il culo degli altri.
- Tempi sociali: gli italiani hanno dimostrato che è possibile lavorare da remoto quando se ne hanno le possibilità tecnologiche. La produttività di chi ha operato in smart working è stata molto più elevata di quanto si pensasse e sicuramente più alta di quella che si avrebbe in ufficio. Non significa che sia la modalità migliore con la quale lavorare anche perché nessuno di noi vuole negare la funzione sociale e comunitaria dell’ambiente di lavoro. Ma è altrettanto vero che i tempi sociali ai quali eravamo abituati, fatti di corse e di strapuntini di mezz’ora da garantire ai nostri figli, dovrebbero essere completamente rivoluzionati. Non possiamo più concepire che si misurino le persone in base alle ore che trascorrono dentro un ufficio. Non è un cartellino che dimostra se uno stia lavorando o meno. E abbiamo bisogno, uscendo dalla quarantena, di tempo da dedicare ai nostri affetti, ai nostri cari, ai nostri amici e alla cura di noi stessi.
- Mercato del Lavoro: qui so di aprire un potenziale veramente bellico. Ho constatato con i miei occhi cosa significhi lavorare senza tutele e cosa abbia significato poter contare su un intervento tempestivo del governo. Senza questa quarantena non avrei mai avuto la vera percezione dello schifo che c’è in alcuni settori produttivi, da grandi aziende a piccoli imprenditori. So bene che sarebbe una generalizzazione ingenerosa parlare ancora di padroni e di controparte lavoratrice (operai od operatori a bassa qualifica) ma tant’è. In questo periodo abbiamo visto lavoratori farsi il culo anche 12 ore al giorno per cercare di portare a casa obiettivi impossibili da raggiungere per la situazione economica e ritrovarsi a fine mese con una busta paga di 150 euro. Non avete letto male, non ho sbagliato l’ordine di grandezza. È proprio 150. Lavoratori che senza uno straccio di contratto “sicuro” cercano di portare lo stesso a casa la pagnotta per poter vivere; altri che si “vedono richiesti” di lavorare in malattia; altri ancora che continuano a lavorare pur messi in cassa integrazione. Fare gli imprenditori così è veramente facile: scaricare il rischio d’impresa sullo Stato da una parte e sui poveri cristi dall’altro è il gioco più vecchio e semplice del mondo. Ecco, non sono più disposto ad accettare su questo alcun compromesso da parte di partiti che professano di ispirarsi alla difesa dei lavoratori e degli ultimi. Non me ne frega più un cazzo dei nomi altisonanti dei decreti (a cosa è servito il Jobs Act se non a una diffusa deregulation in una crisi globale come questa?), degli studi “flex-security” sul modello scandinavo, dei Marattin, degli Alesina, dei Giavazzi, dei Giannino (al singolare, ancora al plurale lo trovo sopportabile). Basta con un mercato del lavoro improntato sulla “bontà” degli imprenditori da un lato che ti offrono come campare e dall’atavica tendenza del lavoratore di voler fottere il padrone e quindi con la libertà per il primo di ricattarlo. Lo so, esistono tantissime piccole e soprattutto microimprese a gestione familiare e amicale che considerano i propri dipendenti come parte della loro famiglia. Sono mosche bianche. Il grosso del mercato, quello che cambia gli equilibri in ballo nel rapporto fra capitale e lavoro, è fatto da imprenditori che giustamente non si fanno scrupoli perché è nella loro stessa natura. Quella che alcuni chiamano la “fame dell’imprenditori” è reale e come tale ha bisogno di essere nutrita, anche a costa di sacrificare qualche rapporto umano, che tanto morto un papa se ne fa sempre un altro. E che il Padreterno ci conservi a lungo l’attuale, di papa, perché le parole di Papa Francesco, sul salario universale per i lavoratori, sono la cosa più in difesa dei più deboli che si siano mai sentiti negli ultimi dieci anni, rimanendo il Pontefice l’unico leader veramente globale in un mondo popolato da personaggi dall’ego eccessivamente ipertrofizzato.
Ecco quindi la mia ripartenza: probabilmente questo sarà uno degli ultimi articoli che scrivo sul mio blog in tema di politica ed economica. Ma volevo che restasse nero su bianco perché a partire dalle prossime elezioni, politiche o amministrative che siano, giudicherò chi si professa di sinistra in base alla sostanziale aderenza o meno a questo pentalogo.