La casa fragile
La signora scruta l’orizzonte: non so cosa guardi. Io spesso mi soffermo su alcuni palazzi in lontananza: sono di proprietà di Bankitalia e occupati dai suoi dipendenti. Hanno sopra i tetti un sito di qualche società di telefonia mobile, come quelli che progettavo anch’io una vita fa. Mi è rimasto un po’ dentro quel mestiere: alzo sempre la testa quando vedo le antenne e mi chiedo chi abbia disegnato quel sito, domandandomi chissà se ci siamo conosciuti in quella sorta di grande famiglia che era l’ingegneria radio alla fine degli anni Novanta. Quest’arzilla vecchietta, che per claustrofobia non prende mai l’ascensore, mentre io – pigrissimo – lo uso pure per fare un piano, ha otto o nove nipoti, ho perso il conto. Quando ha la sua tribù a pranzo di domenica si sentono: adesso è più di un mese che il silenzio è veramente assordante, si avverte soltanto la voce dei programmi televisivi che la signora guarda, unica compagna di questa quarantena di solitudine che le è toccato vivere, contrappasso di una vita affollata.
«Non passa mai il tempo» – mi dice. «Già, immagino» – le rispondo, cercando di trasmetterle un po’ di empatia anche se so che non posso proprio immaginarlo, non io che sì sto soffrendo come un matto a non potermi allenare, a non uscire di casa, a girovagare come piace a me nei dintorni di Roma alla scoperta di qualche trattoria rustica. Mi racconta che è terribile non poter uscire per una passeggiata, non poter ricevere visite se non per farsi recapitare la spesa da un nipote, avere contatti umani a distanza. Chi come me sta vivendo una quarantena “affollata”, in un appartamento normale nel quale tre esseri umani sono forzati alla convivenza 24 ore su 24, non può comprendere il senso di isolamento totale che alcuni anziani provano. Avere compagnia rende certo problematica la gestione degli spazi quando dobbiamo lavorare (sebbene con una figlia quasi adolescente sia veramente semplice) ma quanto meno rende meno fragile la nostra quarantena. A volte la solitudine noi la cerchiamo proprio per sfuggire alla condivisione forzata di ogni momento: nel caso degli anziani è la solitudine ad essere forzata, quasi abbandonati alla mercé della benevolenza che questo virus magari deciderà di esercitare su di te evitandoti.
Mi parla dei suoi figli: quello con la famiglia numerosa, sei eredi, sei bocche da sfamare, copre tutte i livelli della scuola post primaria. Dalla scuola media all’università. Immagino la loro casa e sorrido: «Dev’essere un babele!» – accenno alla signora. Se qui da noi è già un macello con una ragazzina di media con le videolezioni e due genitori con il loro lavoro, non oso immaginare cosa sarà quella casa con otto adulti, sei sessioni simultanee di videoconferenza e due genitori che a turno dovranno pure loro riunirsi in video! E con tutti quei docenti da gestire … già, la didattica a distanza e la scuola digitale. Quando (anzi se!) tutto sarà finito, le famiglie italiane potranno raccontare i salti mortali che si sono fatti per evitare che mezzo anno scolastico fosse sostanzialmente perduto, cercando di limitare i danni. Potremmo raccontare dell’enorme differenza che c’è fra le città coperte con la rete a larga banda e quelle dove ancora il digital divide è alto sia a livello tecnologico (e quello si può ovviare con forti investimenti) sia soprattutto a livello culturale. Ed è questo il più complicato da contrastare e che dovrà prevedere in futuro ingenti investimenti in formazione sia per il corpo docente che per le famiglie.
Con la signora ci salutiamo da lontano. «Se ha bisogno di qualcosa, noi fra un po’ andiamo a fare spesa» – le accenno. Mi dice che suo nipote le ha riempito il frigo e che per un’altra settimana potrà continuare a vivere questa quarantena, sperando che duri il meno possibile e che – soprattutto – quando ne verremo fuori non saremo tutti usciti di senno.