Dieci anni

 In LIFE
Eravamo andati a letto abbastanza sereni. Il d-day si avvicinava ma con la prima gravidanza – si sa – tutto può accadere. Mentre mia moglie riposava – si fa per dire! – seduta sul divano del minuscolo salotto del nostro mini appartamento all’Espero, io avevo dormito beatamente nel lettone, ignaro che sarebbe stata l’ultima volta senza pensieri e senza quei pianti e rumori che in piena notte ti avrebbero poi fatto balzare in aria.

Era una domenica assolata ma si preannunciava già un cambio di clima in nottata. Al Gemelli ci aspettano a mezzogiorno.

«Come ti senti?» – chiedo alla futura madre.
«Bene, non sento nulla. Faremo presto e andremo di corsa a pranzo da tua sorella!» – risponde lei.

Il nonno è arrivato da Catania ed è già in attesa della sua seconda nipote, mentre a pochi chilometri dall’ospedale si sta godendo la prima, nata quasi nove mesi prima. Arriviamo velocemente all’ospedale: sull’Olimpica troviamo pochissima gente, nonostante il Natale sia ormai quasi alle porte.

Sono stati nove mesi intensi: il secondo, con quel viaggio on-the-road in America e quel malore lungo una via isolata del Maryland, è stato il più difficile. Ricordo ancora il sollievo provato, mentre lei dormiva accanto, alla vista delle indicazioni di Baltimora: «Almeno ci sarà un ospedale qui» – pensai. Non ce ne fu bisogno e il viaggio riprese a meraviglia.

Poi tutto sommato Elisa è stata una brava bambina anche dentro la pancia: certo, arrivati al termine, sua madre non ne poteva più di dormire seduta e di cenare alle cinque del pomeriggio per poter passeggiare lunga la pista ciclabile, quella stessa pista che ora suo padre teme persino di prendere quando è in bici per il timore di finire in fondo all’Aniene!

Però clinicamente è stata una gravidanza perfetta ed è questo ciò che conta. Al Pronto Soccorso del Gemelli è di turno un ginecologo un po’ burbero: visita mia moglie con una grazia sconosciuta, le fa piuttosto male e parla poco. E quando lo fa è soltanto per alzare il telefono e chiamare la sala parto.

«Come la sala parto? Noi dobbiamo andare a pranzo da mia sorella e loro ci fanno rimanere qui?».

Si va su. È ora di pranzo per i degenti: aspetto che lei mangi qualcosa e poi andrò io al bar a consumare un panino.

«Allora, che ti senti?» – ci riprovo.
«Mah, francamente ancora nulla!» – la risposta è sempre la stessa.

Avverto gli altri: il pranzo lo dobbiamo rimandare e dovrete aggiungere un posto a tavola che Elisa ha deciso di provare a uscire! Comincia a salire l’adrenalina: sto per diventare padre e ancora non ho capito né se io sia pronto a esserlo né cosa diavolo effettivamente significhi!

Passano le ore che al Gemelli ti sembrano settimane, altro che giorni: la ginecologa di Silvia arriverà dopo le 18 e vedremo che dirà. Evidentemente Elisa sta troppo bene là dentro! Decidono quindi di rispedire al reparto madre, padre e computer (stavamo guardando, sotto gli occhi increduli e teneri delle infermiere, la puntata della sitcom Friends quando Rachel partorisce Emma).

S’è fatta ‘na certa, dicono a Roma, e infatti arrivano prima la ginecologa e poi la cena. Lascio mia moglie per un’oretta, forse più, vado a mangiare e a fumare un sigaro: Elisa ha deciso di concedermi un’altra pausa di riflessione prima di diventare suo padre. Mi chiama dopo un po’ mia moglie: devo tornare in reparto che la ginecologa dice che è ora. S’è scocciata pure lei, evidentemente, di aspettare. Torniamo su: la sala parto è bellissima. C’è pure la vasca anche se è senza acqua. Durante il corso pre parto ci hanno spiegato di come dev’essere bello partorire in acqua.

Noi padri ci crediamo sulla parola, naturalmente.

Silvia si distende e le contrazioni cominciano: e sono forti. Ci spiegano che se non si arriva ai fatidici dieci centimetri di dilatazione Elisa sta bene ‘ndo sta. Il punto è – loro non lo sanno – che mia figlia è fin troppo precisa ed evidentemente lo è sin dal concepimento. Le 40 settimane scadono il giorno dopo, il 15 dicembre. Non penserete mica che si possa anticipare qualche oretta così poi ci si possa addormentare un pochino, eh?

15 dicembre dev’essere e quindi 15 dicembre in qualche modo sarà.

Passa il tempo: mia moglie, mischina, si appoggia con tutta la sua forza sulle mie spalle. Qualche ora dopo mi chiederò cosa io abbia sollevato per avere una contrattura così forte ai dorsali da costringermi alle solite iniezioni. Darò la colpa alla moto (e alle buche di Roma non fatte riparare da Alemanno, ché Roma è così da sempre) prima di comprendere meglio: lei le contrazioni, io la contrattura! Suvvia, il minimo, visto che noi papà non ci dobbiamo sorbire nove mesi di un esserino che ti tira calci dentro e ti sposta lo stomaco in orbita.

Intorno all’una di notte – e «cacchio, Elisa, siamo già al 15! Vuoi uscire o no?» – mi “invitano” gentilmente a lasciare la sala parto. Si fa l’epidurale e il personale non sanitario è tenuto a uscire. Mi vado a prendere un altro caffè: ho perso il conto di quanti ne abbia bevuti in ventiquattro ore! Perdo una mezz’oretta. Leggo nel frattempo i messaggi dei parenti in attesa e attendo che mi riaprano la porta che però resta ben serrata.

Nessuno mi risponde al citofono, nessuna notizia.

Comincio ad allarmarmi: che qualcosa stia andando storto? Non ho un buon rapporto con gli ospedali e il conto già pagato in termini di dolore mi sembra sufficiente. Cerco di rimanere calmo, ma stateci voi calmi all’una di notte, con tua moglie alla quale non si sa che stiano facendo e con una decina di caffè che ti ballano dentro come una notte in spiaggia per un rave party!

Dopo un’ora (!) finalmente si fanno vivi e mi fanno rientrare: l’epidurale praticamente non funzionerà completamente perché il bulldozer dentro la pancia di mia moglie ha provocato uno spostamento delle vertebre e ciccia all’ago che avrebbe dovuto iniettare il miracoloso liquido! D’altronde partorirai con dolore, dicono le Scritture, ignare allora che la medicina qualche sollievo potrebbe pur darlo!

Comincia lo sprint finale e alle 3:34 del mattino guardo con i miei occhi la scena più incredibile, entusiasmante e terrificante che potessi mai pensare di osservare. Vedi con i tuoi occhi il miracolo della vita nascente, la testolina che ancora sembra stia dormendo e non fa nessun accenno di risveglio, prima di cacciare fuori un urlo cosmico già allora non appena s’è avvertito il grido della madre per un punto non proprio cucito da mano ferma!

Potenza del legame materno!

Le infermiere prendono quel corpicino e lo depositano sul petto della madre e incredibilmente si calma. Quasi non credo ai miei occhi. Poi la lavano, la strigliano, la misurano, la manipolano, la contorcono e infine la rivestono.

Sembra una bambola, anzi forse un po’ lo è: non parla ovviamente, non piange, nulla. Pia illusione: si rifarà con gli interessi per tutte le parole non pronunciate quella notte!

«Prego, tenga!» – mi dicono.
«Ma chi, io?» – rispondo.
«Ma non è lei il padre» – sorride la caposala, come a dire «altrimenti che cavolo c’è stato a fare qui 16 ore?».

Prendo in braccio Elisa e la guardo: è semplicemente perfetta. Ho desiderato tanto una femminuccia e sono stato accontentato. Si appoggia sul mio petto e continua a dormire. Non avrei immaginato quella notte che nel corso di questi dieci anni avrebbe dormito centinaia di volte distesa su di me e che mi considerasse – lo fa ancora! – il miglior materasso del mondo.

Sto con loro fino alle 6 circa, mentre nel frattempo arrivano mio padre e mio cognato per conoscere la loro nipotina.

«Secondo me, le resteranno chiari gli occhi!» – sentenzia profetico lo zio, mentre tutti si affannano a informarmi che gli occhi chiari dei neonati possono virare al colore scuro (dimenticando, loro, che gli occhi chiari ce li ho pure io e forse qualcosa di Mendel ancora me la ricordo!).

Mi metto in macchina e torno a casa: mi faccio una doccia e finalmente vado a letto, non prima di aver inviato urbe et orbi l’annuncio della nascita dell’erede. Mi stendo finalmente a letto intorno alle 8:30 ma chi ce la farebbe a dormire. Troppa adrenalina! E troppa fame! Intorno il quartiere è già arzillo e rumoroso come al solito: dormire è un’impresa! Meglio fare colazione e cominciare la giornata.

Guardo il lettino di Elisa accanto al lettone: è pronto a ospitarla e in quel preciso istante comprendo che nulla sarà più come prima. E scoppio finalmente in un pianto liberatorio: è felicità allo stato puro, avverto un’euforia positiva così alta e un’emozione così forte che soltanto un’altra volta nella vita ho avvertito, ma quella volta non era positiva, ma negativa, profondamente negativa.

Mi fermo un attimo a riflettere, con il caffè che fuma intensamente dalla tazzina. Quasi diciotto anni prima, in un venerdì di gennaio e in un altro ospedale, avevo provato il dolore più immenso e penetrante che un figlio potesse mai provare. Ora invece ciò che provo è gioia e la felicità invade ogni poro della mia pelle.

Adesso finalmente l’ho capito. Sono e sarò sempre figlio, ciascuno di noi lo è e lo sarà per tutta la vita. Ma in questo 15 dicembre 2008 è come se rinascessi anche io: non è nata soltanto mia figlia, sono nato anche io in un certo senso.

Sono diventato padre.

Sono trascorsi dieci anni da quella notte: Elisa è diventata una signorinella, sta per completare il suo ultimo anno della primaria, pratica nuoto (non come il padre ma sincronizzato) ed è ormai pronta per diventare una ragazza. Sono molto orgoglioso di lei: ha una rara intelligenza vivace, sprizza vita e gioia, è curiosa e tartassa di domande. Non si ferma mai e devi stare al passo con i tempi per starle dietro, a lei e a questo mondo, che ormai accelera sempre di più ogni passaggio, anticipando fasi della vita anche quando ancora la biologia non ha fatto il suo corso, costringendoti persino a cercare di capire come funzioni snapchat (e fin lì ci siamo) e musical.ly (incomprensibile! Ma ragazzi miei, era proprio necessario?).

In un solo decennio ha già sopportato tre traslochi e percorso lo Stivale più di quanto io avessi fatto alla sua età. È stata già in America (due volte, se consideriamo quando era un frugoletto dentro la madre!), tre volte fra Provenza e Costa Azzurra, ha toccato buona parte delle regioni italiane e traghettato innumerevoli volte lo Stretto di Messina, amando come me quel magico istante in cui la nave si stacca dalla Calabria e naviga verso la nostra isola.

Ama visitare i musei e le mostre, legge e scrive bene, adora i documentari e la musica. È una ragazzina solare e questa è la cosa che più mi rende felice, visto che io un po’ orso lo sono stato e lo sono ancora.

Ed è proprio questo che le auguro per tutta la vita, ora che l’infanzia in un certo senso termina: che ami sempre la conoscenza e la scienza, le arti e la musica, perché l’unica arma che avrà – nel sempre più competitivo e difficile mondo che erediterà – verterà unicamente sulla sua capacità di lettura degli eventi e di assunzione delle proprie responsabilità.

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