Perché scrivi?
Per coloro che non mi conoscono in profondità e che giustamente si sono fatti un’idea anche (o soltanto) sulla scorta delle mie scelte formative e lavorative “ufficiali”, scoprire un “Enzo” romanziere ha comportato un forte stupore, uguale e contrario a quello di chi invece desse per scontato che la mia formazione universitaria fosse umanistica (un’amica recente mi ha confidato che pensava fossi laureato in Filosofia). Ma qualunque sia l’origine dell’interlocutore, una persona che ti conosce appena oppure qualcuno con cui hai un legame assai radicato, a quella domanda non si sfugge e anzi la si rilancia sempre: «Ma tu, perché scrivi?».
Già, cosa scatta nella mente di una persona che improvvisamente sente l’urgenza e il bisogno interiore di scrivere, di riempire pagine bianche, di porsi alla ricerca di risposte a interrogativi che la propria mente si pone?
Qualche tempo fa avrei interrogato anch’io me stesso e mi sarei chiesto se non ci fosse un qualcosa di narcisistico nel voler mettere per iscritto i propri pensieri con lo scopo di renderli pubblici: insomma ci saranno milioni di persone che si pongono interrogativi sulla vita e sul perché della nostra esistenza ma non per questo si mettono davanti a una tastiera o a un quaderno e buttano giù libri e romanzi. Perché allora ci accade?
Credo che la risposta a me l’abbia data Annie Ernaux, scrittrice francese, ed è apparsa lo scorso 7 aprile in prima pagina dell’inserto Tutto Libri de la Stampa, il quotidiano torinese, in occasione dell’uscita di un nuovo tassello dell’autobiografia che l’autrice transalpina compone da oltre trenta anni. «Oggi è morta mia madre: se scrivo, capirò quel dolore» – questo il titolo del pezzo di Gabriella Bosco, che accompagnava l’incipit del romanzo. Vi confesso che non ho ancora letto i libri della Ernaux e sicuramente in futuro rimedierò a tale lacuna, ma in questa frase virgolettata c’è forse la summa delle ragioni per le quali si scrive, o almeno io scrivo. E non è qualcosa di legato al lutto fisico, come potrebbe ovviamente sembrare vista la prima parte della frase della scrittrice. Io invece credo che qualunque sia il sentimento che si prova di fronte a un evento, che ti accada o al quale assisti, che ti venga confidato oppure che tu lo venga a scoprire fortuitamente, ecco penso che per uno scrittore divenga ineluttabile dover mettere in fila i propri pensieri. Insomma carta e penna come appendice dei propri pensieri, delle proprie riflessione, di ciò che in quel preciso momento diventa fulcro e perno di scelte da compiere, di decisioni da non poter più rimandare, di risposte da fornire a interrogativi del passato, di domande da formulare per il futuro.
Ed è ovviamente più coinvolgente e più intenso farlo di fronte ai dolori, ciò che gli psicologi chiamerebbero “lutti”, quei conti cioè da regolare con la tua vita, l’elaborazione dei quali diventa la parte più improba e faticosa della scrittura. Ciò comporta – e qui sta forse la differenza con chi scrittore non è – che l’autore si metta in viaggio verso mete inesplorate del proprio animo, spesso carico di fardelli pesanti, di bagagli culturali, familiari, caratteriali, religiosi, spirituali, intellettuali che uno si porta appresso da sempre e che sono insieme zavorre da cui liberarsi e ma anche strumenti attraverso i quali analizzare i sentimenti e andare avanti.
Tante volte capita che ti chiedi “chi te lo faccia fare”, per quale motivo vivere così intensamente la vita – persino quelle degli altri! – quando a volte ne paghi un prezzo anche fisico per questo lavorio continuo della mente. Per quale motivo – insomma – anziché trascorrere le ore in automobile godendoti soltanto la musica che ti passa il tuo nuovo sistema multimediale ultramoderno, ecco quelle ore le passi invece a pensare e ripensare alle storie da raccontare, immergendoti nella vita dei tuoi personaggi, quasi a immedesimarti dentro loro come se fossi Patrick Swayze in Ghost? Ti chiedi cioè se la gente non viva decisamente meglio senza porsi tutti gli interrogativi che ti poni tu, senza scrutare l’animo umano alla ricerca spesso di qualcosa di non sempre decifrabile, godendosi senza alcun ulteriore dubbio quel solo istante di piacere quando la gioia è incontenibile e indescrivibile, anziché concentrare tutta la propria attenzione su quella piccola e magari insignificante perturbazione, quel nulla, che avrà poi spostato il punto di equilibrio dalla gioia al dolore, dalla felicità alla disperazione, e che comporterà l’impotenza di chi ti sta attorno perché non comprende pienamente quel tuo bisogno di continua ricerca mentre pochi saranno coloro, da te eletti, che ti capiranno.
Il punto è che un autore si nutre delle emozioni che lo circondano, le fa proprie e le vive dentro di sé perché esse – persino quelle insignificanti ai più – diventano invece fonte di illuminazione e di ispirazione. E allora comprendi che quella ricerca di emozioni, quella sorta di continua esplorazione della mente, è il carburante perfetto della tua macchina e non ne puoi più fare a meno. E quindi ti rimetti in viaggio, alla ricerca di quel punto esatto dell’anima nel quale avverti concentrato tutto il senso della vita e per scoprire quell’istante esatto nel quale ti sembrerà cogliere fondamentalmente la risposta alla domanda che l’uomo si pone dalla notte dei tempi: “perché?”, salvo poi comprendere che quell’istante esatto lì in realtà è soltanto effimero e si sarà subito spostato di un epsilon, piccolo a piacere, che per te comporterà un nuovo viaggio e una nuova esplorazione. Una nuova avventura foriera di eccitazione e sconforto, frenesia e avvilimento, un ottovolante di emozioni che si arresterà soltanto temporaneamente quando verrà messo l’ultimo punto dell’ultimo capitolo.