Il basso costo
Tuttavia se per un attimo riusciamo ad astrarci dal nostro piccolo e cominciamo a ragionare a più alto livello, scopriamo – leggendo e ascoltando interviste semi clandestine ai lavoratori del magnate ‘O Leary – che le nostre tratte low cost, le nostre vacanze al risparmio, i nostri viaggi economicamente accettabili, non sono soltanto caratterizzati dal mal di schiena, prezzo da pagare per gli scomodissimi sedili blu e gialli. Il vero prezzo, non propriamente low, lo pagano quei lavoratori che continuano a sballottarci per tutta Europa a condizioni lavorative che non esiterei definire di moderna schiavitù se non avessi rispetto per le vittime dello schiavismo nei secoli passati.
L’incredibile vicenda, scaturita da un’errata pianificazione delle ferie dei piloti e degli assistenti di volo, non nasce per un mero errore di scheduling: si sta infatti scoprendo che dall’inizio dell’anno è cominciato un vero e proprio esodo dei comandanti piloti verso compagnie non soltanto più remunerative ma che consentono condizioni di lavoro ben più dignitose di quelle che a Dublino erano soliti concedere. Sedici anni dopo l’11 settembre, il giorno che rappresenta uno spartiacque epocale nel trasporto aereo e dopo il quale una sfilza di balzelli e sopra balzelli si è cominciata ad accumulare sui nostri biglietti aerei senza che ci capissimo realmente qualcosa, il mercato del trasporto aereo scopre che il tanto celebrato re irlandese, osannato negli hangar di tutta Europa e richiesto a gran voce al di là dell’Atlantico, è in realtà un re nudo e che quando un blocco sindacale fa appunto il proprio mestiere si possono riscoprire forme nuove di lotta che consentono di modificare i rapporti di forza fra capitale e lavoro.
Per tanto – pure troppo – tempo abbiamo dovuto subire la vulgata dell’ineluttabilità della forza del capitale, con il risultato che le grandi e moderne aziende, intossicate ormai di finanza e sempre meno di idee e creatività, hanno cominciato a voler produrre profitti identificato come loro principali nemici coloro che dovrebbero invece rappresentare il vero asset principale, i propri dipendenti, che da risorse umane stanno sempre più spesso divenendo dei pesi industriali.
‘O Leary scopre quindi che anche per piloti e assistenti di volo, che solitamente era solito spremere come un limone, il lavoro non può essere considerato una concessione bensì un diritto e che non può essere mai ricompensato a scapito dei più elementari diritti, sanciti da svariati decenni di lotte sindacali che funzionano soltanto quando c’è l’unità. E non è certamente un caso che quando governi e imprese prendono di mira le legislazioni sul lavoro del mondo più industrializzato, nella folle corsa al ribasso per inseguire il mito della produttività cinese (chiedere invece alla tigre orientale di migliorare le condizioni dei lavoratori e delle famiglie in Estremo Oriente evidentemente pare brutto!), la prima cosa che fanno è cercare di rompere l’unità sindacale, buttare qualche amo nella grande vasca e vedere cosa si pesca.
Certo, i piloti sono una potentissima lobby sindacale a qualunque latitudine e questo per il semplice e lapalissiano motivo che non tutti sono in grado di portare quei bestioni attraverso i cieli e con 300 passeggeri a bordo che hanno come obiettivo almeno quello di arrivare sani e salvi a destinazione. Ma tale vicenda ci insegna pure che c’è un limite nella corsa al taglio dei diritti dei lavoratori e che quando quel limite si oltrepassa è doveroso assumersi ciascuno le proprie responsabilità. È evidente che non tutti i mercati sono come quello del trasporto aereo e ci sono settori industriali dove i lavoratori devono impegnarsi maggiormente per rivendicare i propri diritti fondamentali. Ma è altrettanto vero che la crisi di Ryan Air è la dimostrazione di come questo mondo contemporaneo ha contribuito a divaricare non soltanto le condizioni delle varie classi sociali ma soprattutto la separazione fra dipendenti e manager, spostando troppo in là l’asse delle relazioni industriali che ormai vedono proprietari e top manager a distanza siderale da chi poi deve produrre beni e servizi.
«La gente non mangia PIL» – ha sostenuto qualche giorno fa Paolo Gentiloni e non possiamo non notare come l’understatement di questo premier sia un notevole passo avanti dopo che due degli ultimi esecutivi politici, il Berlusconi IV e il Renzi I, simbiotici nella comunicazione al limite del plagio, provavano con tutti i modi di oscurare ogni cosa potesse rabbuiare la loro narrazione ottimistica e aliena dalla realtà.
Forse però, dopo decenni nei quali si è monetizzato tutto il monetizzabile, dopo che un legittimo reintegro è stato quantificato in un determinato numero di mensilità, dopo che l’indennità di malattia è stata derubricata a concessione degli istituti pubblici competenti e a poco a poco tagliata, dopo che persino le ferie sono state viste come fancazzismo da manager sempre più spregiudicati nel gestire le proprie risorse, finalmente c’è qualcuno che forte delle proprie competenze restituisce pan per focaccia a chi si è troppo approfittato.
Se questa vicenda possa essere un esempio per riequilibrare un po’ questo capitalismo esasperato, fatto più di azioni che di sudore, non lo sappiamo: è però incoraggiante scoprire che c’è ancora qualcuno nel mondo che crede che taluni diritti sono ormai inalienabili, non monetizzabili e patrimonio comune delle società più sviluppate. Servirebbe adesso che un po’ ovunque questa domanda di rappresentanza delle istanze dei più deboli sia in qualche modo intercettata ed è questa la sfida che vede di fronte le forze politiche che ancora oggi si professano di sinistra o di centrosinistra.
Le aspettiamo al varco.