La democrazia impaurita
Le ultime iniziative che limitano la libertà di stampa in Italia mi hanno spinto ad accelerare questa sperimentazione: nel nostro Paese si vive in una situazione di democrazia condizionata, con un Governo ed una maggioranza parlamentare che stanno minando alle fondamenta stesse della nostra Costituzione, cercando da un lato di tappare le orecchie e di chiudere gli occhi ai cittadini, dall’altro operando affinché le bocche di giornalisti, opinionisti ed intellettuali rimangano le più chiuse possibili.
Politicamente si trattava un’era geologica fa: Silvio Berlusconi presiedeva il suo quarto governo, aveva già qualche frizione con Fini, resa plastica dal celebre «Che fai mi cacci?» dell’ex leader di Alleanza Nazionale durante la Direzione Nazionale del fu Popolo della Libertà, lo spread non minacciava seriamente il nostro debito pubblico e Mario Monti era ancora alla Bocconi. Beppe Grillo e il suo movimento erano praticamente inesistenti su scala nazionale mentre Matteo Renzi da un anno era il sindaco di Firenze ma non aveva ancora lanciato la sua prima Leopolda e appellava Veltroni e Franceschini rispettivamente “disastro” e “vice disastro”. Il Partito Democratico era guidato da Pierluigi Bersani e cercava di risalire la lunga china che lo avrebbe poi portato alla guida del Paese, anche se purtroppo con una vittoria non piena come in molti speravano e come lo stesso leader ammise quella sera di febbraio di tre anni dopo. La legge Calderoli era ancora un bel Porcellum vivo e vegeto e sarebbe stata distrutta soltanto tre anni e mezzo più tardi da una sentenza della Corte Costituzionale.
Sette anni dopo siamo alla vigilia di un’ennesima campagna elettorale anticipata dopo l’incredibile accelerazione sulla legge elettorale impressa dal super accordo fra PD, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle. Ma se sette anni fa parlavo di democrazia condizionata, non piena come la libertà di certi detenuti, oggi ho come l’impressione di essere di fronte a una democrazia impaurita: paura che attanaglia partiti e movimenti, con i loro leader in prima fila; un timore proprio di confrontarsi con la complessità dei problemi sociali ed economici che continuiamo a vivere (a settembre saranno nove anni dal default di Lehman Brothers!), preferendo soluzioni semplicistiche e arroccandosi dentro il castello del loro potere.
I grillini, che avrebbero dovuto rappresentare la novità ma che invero si sono mostrati conservatori dell’immobilismo, hanno dato il loro beneplacito a un sistema elettorale che probabilmente assicurerà loro altri cinque anni di opposizione: dopo aver visto come sia difficile governare Roma e dopo il “suicidio” politico di Parma, meglio lasciare agli altri il compito di guidare la macchina che a sbraitare da fuori è sicuramente più semplice.
Visto dal di fuori è evidente che il patto Renzi-Berlusconi riguardi anche il futuro, a meno di risultati ad oggi imprevedibili, e non ci si può far a meno di chiedersi se veramente l’elettorato del PD, quello che ha partecipato massicciamente alle primarie di aprile, sia così rassegnato a dover governare con l’avversario di sempre. Cosa spinga i democratici a seguire la sirena del direttore del Foglio Claudio Cerasa, con le sue rappresentazioni di uno scenario politico dove Silvio Berlusconi è bene averlo in maggioranza mentre magari Bersani no, è un qualcosa che sfugge totalmente ai miei pochissimi neuroni.
C’è una cosa che risalta ancora di più nella scelta del modello elettorale che i tre schieramenti maggiori hanno avallato: siamo di fronte a un vero arroccamento della partitocrazia, dove a competere sono gli apparati politici, con tanti saluti alla partecipazione e alla rappresentatività del territorio e al contatto diretto con gli elettori. Ha in questo ragione Romano Prodi quando asserisce che è un’altra occasione persa per l’Italia di avere un sistema elettorale basato sui collegi uninominali, magari con il doppio turno francese (i candidati oltre la soglia del 12,5% accedono a un secondo voto), per far sì che i nostri rappresentanti siano scelti dai loro elettori e da essi possano in qualche modo essere controllati.
Hanno tutti paura della contatto a pelle della gente, dell’ascolto dei loro problemi, dello sforzo di dover risolvere questioni che non riescono più né a comprendere né tanto meno a intercettare. Sono partiti/movimenti chiusi nel castello dei loro social network, sempre più convinti che una comunicazione fatta di card (vere e false) su Facebook, Instagram e Twitter valga di più di scendere tra la gente e confrontarsi anche duramente con la realtà che li circonda. Né i vincitori né i vinti del referendum costituzionale hanno infatti intrapreso la benché minima riflessione su quel risultato e soprattutto sulla composizione di quel 40-60, preferendo ciascuno di essi torcere a proprio favore le cifre, in un completo scollamento dalla realtà.
Per chi come me è amante della democrazia parlamentare di Westminster, che incredibilmente funziona senza costituzione materiale né par condicio e nemmeno strane schede e alchimie elettorali, è l’ennesima conferma della pausa di riflessione intrapresa: d’altra parte nessuna delle forze politiche attualmente presenti nello scenario politico rappresenta per me un’offerta politica accettabile né racconta un disegno di paese per i nostri figli che mi convince.
E mentre ammireremo giovedì 8 giugno i collegi inglesi che incoroneranno i loro membri del Parlamento, osserveremo con molto più distacco di cinque anni fa questa tornata elettorale nostrana che già si preannuncia zeppa di fake news, propaganda becera e comunicazione politica più da scuola media che da paese serio. Sarà ancora una campagna elettorale totalmente televisiva e fortuna che il Signore grande e misericordioso ha illuminato le menti degli scienziati e dei ricercatori, fornendoci tanti di quei canali televisivi, terrestri, satellitari e in streaming, da rendere possibile l’isolamento totale dalla propaganda.
p.s. La legge elettorale proposta dall’accordo fra le forze politiche maggiori parte dal modello tedesco e atterra su un classico pasticcio all’italiana. Innanzi tutto non potendo innestarsi sulla costituzione tedesca (e sul loro popolo, ma questo è un dettaglio!), che prevede la sfiducia costruttiva (beati loro!), i nostri politici hanno confezionato un ibrido proporzionale che riesce a coniugare il peggio del maggioritario con il peggio del proporzionale. I 300 vincitori dei collegi uninominali non è detto che diventino tutti deputati perché dipende dal riparto nazionale del voto proporzionale (ad oggi sembra non ci siano nemmeno i doppi voti come avviene in Germania). Poi ci sono le solite liste bloccate (anche se piccole e scritte sulla scheda) e le pluri candidature. Naturalmente il nostro non è nemmeno uno stato federale come la Germania, dove il controllo dei cittadini è spesso esercitato maggiormente a livello di politiche locali: sembra dovremo rassegnarci alla sconfitta di quella sacrosanta battaglia di Pannella contro la partitocrazia. Vincono sempre loro.
p.p.s illustrazione da Pixabay (CC0 Public Domain by geralt)