Hanno tutti Torto Marcio
Tra i vari appunti che ho, alcuni stralci di un embrione di romanzo giallo in effetti esistono. Solo che poi bisogna guardare la realtà e comprendere se si sia portati o meno per i gialli e – soprattutto – se maneggi il linguaggio direi indispensabile per tessere una trama noir.
Sono siciliano e “camilleriano” ma non sono Andrea Camilleri né mai potrò esserlo. Così come sarebbe assai difficile raggiungere le vette stilistiche e narrative di Alessandro Robecchi, del quale ho appena finito di leggere Torto Marcio, l’ultimo romanzo che lo scrittore milanese ha pubblicato con Sellerio.
Che dirvi? Ogni volta che finisco un suo libro penso a una parola: peccato! Peccato che sia terminato! È un libro bellissimo, pieno di pathos e di colpi di scena. Fino alla fine.
Credo che per scrivere un romanzo giallo non basti saper scrivere bene e – possibilmente – in italiano: serve talento e genio, due qualità che Robecchi in questo libro esprime in tutto il suo splendore, con una cura maniacale per i dettagli, che poi aiutano il lettore a sentirsi lui stesso parte del team di investigatori che indaga sull’ultimo sciame di omicidi che hanno colpito la “capitale morale” del Paese.
È un Robecchi ispiratissimo, dalla consueta ironia tagliente ma anche una penna capace di ruggire quando serve per mostrare tutta la sua indignazione per le condizioni degli umili. Appare persino rassegnato nella constatazione della loro condizione sociale ma non per questo rinuncia a far sentire alta la sua incazzatura per le distorsioni di questo stramaledetto e ingiusto mondo contemporaneo. I suoi personaggi sono così normali da essere straordinari proprio per questo: dal solito Monterossi, ormai un eroe malinconico sempre più immerso nella ricerca della sua vera ragione di vita che possa prescindere dalla Grande Fabbrica di Merda dove lavora, al vice sovrintendente Ghezzi che per poco più di mille euro al mese si applica con una dedizione encomiabile al suo mestiere di sbirro, nonostante gli manchino poco più di cinque anni alla pensione. Fra quelli di questo romanzo – senza voler fare spoiler – credo meriti menzione speciale la signora Antonia: non anticipo nulla, naturalmente, ma credo che la sua umanità così profonda, così dignitosamente rassegnata («siamo poveri, non pezzenti!» – la sua teologia di vita), sia uno dei tratti più significativi dell’intero romanzo.
Poi c’è Milano, con le sue contraddizioni e la sua eleganza: ecco se c’è una cosa che Robecchi insegna è come scrivere dei luoghi nei quali il proprio libro è ambientato. Anche nei tre romanzi precedenti, dei quali avevo scritto tempo fa questo post, la scelta dei tempi, dei luoghi, degli spostamenti è semplicemente perfetta. Ti sembra di viaggiare insieme all’autore in lungo e in largo per la città: prendi i mezzi pubblici con Ghezzi, sali sul carrarmato di Monterossi, vomiti sul sedile posteriore dell’autovettura di Carella, il sovrintendente che guida come Fangio. Nelle passeggiate di Carlo sembra di stare accanto a lui, anzi a chiacchierare con lui. Del caso, della sua trasmissione Crazy Love che ormai odia, dell’Oban 14, l’amato whisky, delle surreali discussioni con Oscar Falcone, il giornalista-investigatore amico di Carlo che lo aiuta (e talvolta lo inguaia ancor di più) nelle sue assurde vicende.
Una traversata per la città che è senz’altro aiutata dalla scelta dell’indicativo presente come tempo di narrazione: subito il lettore viene come catapultato dentro al libro, non ha nemmeno il tempo di rendersi conto che ciò che sta leggendo è fiction. Sembra tutto vero e per molte cose verosimile lo è davvero. E questa è una cifra stilistica che ammiro molto in Robecchi, alla stessa stregua della sua capacità di descrizione puntuale e precisa della società meneghina che ha inventato e che appare del tutto plausibile e in linea con quella reale.
Adesso dobbiamo purtroppo aspettare il prossimo anno, sperando che le attese per una nuova avventura di Monterossi non siano vane (non ti azzardare a non scrivere più di Carlo, Alessandro!) e con l’assoluta certezza che anche il prossimo romanzo non ci deluderà, noi Monterossi-dipendenti, e che si rivelerà migliore proprio come l’Oban 14.