Farewell Farewell

 In POLITICA
Aveva nemmeno quaranta giorni e dormiva beatamente sulla mia pancia quando un uomo di quarantasette anni, quasi la mia età attuale, apparve sugli schermi del nostro vecchio televisore a tubo catodico, carismatico, fiero, portatore di una speranza, una parola “hope” che ne era stato il tratto distintivo della sua ascesa politica. L’avevo seguito “a distanza” per tutte le primarie del 2008 e durante un viaggio di una decina di giorni in America avevo annusato un po’ quell’aria speciale che si respirava, la grande suggestione del primo uomo di colore che sarebbe potuto entrare nella Casa Bianca.

Quattro anni dopo eravamo nuovamente davanti ai teleschermi felici di aver scampato il pericolo di un cartone animato come Mitt Romney e osservavamo la grande folla che sul Mall di Washington si era riversata – per la seconda volta – per ascoltare le parole di quello che a mio avviso resterà uno dei migliori presidenti e dei più capaci politici che gli Stati Uniti d’America ci abbiano regalato.

A dispetto dei soliti musi lunghi della sinistra anti occidentale e della destra intrinsecamente fascista, che hanno ridicolizzato la figura di questo meticcio venuto dalle Hawaii e formatosi nella gelida Chicago, soprattutto per gli indubbi insuccessi in Siria e nelle Primavere Arabe (pronti sicuramente ad attaccare l’Impero qualora l’America avesse deciso di scendere massicciamente in campo come in Afghanistan e in Iraq), Barack Obama ci lascia invece una grande eredità da coltivare e da valorizzare, nell’ecologia da perseguire come opportunità economica, nell’esempio di come si servono le istituzioni, nel voler cercare di riportare Main Street al centro della politica anche in un periodo storico complicato che vede l’Alta Finanza padrona assoluta, quasi anche della vita degli individui. Ma anche in politica estera.

Se molti commentatori comprendessero la relatività temporale, che evidentemente Albert Einstein non riuscì a spiegare a fondo vista la capacità di gran parte di carta stampata e di ceto politico di ignorare le basi dell’osservazione storica, probabilmente riuscirebbero a comprendere cosa siano state per il mondo intero le aperture diplomatiche verso Cuba e l’Iran che l’amministrazione statunitense uscente ci sta lasciando. La fine della guerra fredda del Novecento, ormai confinata nei fatti all’interno del paese guidato dal ridicolo – anche se pericoloso – dittatore nord coreano, così come il successo del negoziato sul nucleare in Iran, rappresentano molto di più di quello che taluni opinionisti ammettono sui giornali o in televisione e lasciano un mondo sicuramente migliore di come fosse nel 2008.

Sono fermamente convinto che se al posto di Hillary Clinton, con un passato (Bill) troppo ingombrante e con un legame troppo stretto con Wall Street, ci fosse stato il Vice Presidente Joe Biden, il magnate Donald J. Trump non avrebbe toccato palla in alcuni stati chiave che hanno giocato a suo favore. Purtroppo il destino ha giocato un tiro assai mancino all’ex senatore del Delaware, che dopo le tragedie degli inizi degli anni Settanta, si è trovato di nuovo a compiere l’atto più innaturale che un uomo possa mai compiere, quello di seppellire il proprio figlio, stavolta il primogenito dopo la tragica fine della sua prima e adorata bambina. Sarebbe stato veramente troppo chiedere al Vice Presidente di imbarcarsi in una nuova campagna per le primarie, faticosa e dispendiosa, anche se ciò avrebbe esposto il suo partito al rischio – poi avvenuto – di perdere un’elezione che difficilmente sarebbe stata perduta se il candidato nominato avesse curato maggiormente il recupero di un elettorato, quello della cintura manifatturiera intorno ai grandi laghi, che ha patito più di ogni altro la crisi recessiva del 2007 e dalla quale con molta fatica ha recuperato ancora soltanto il posto di lavoro ma sicuramente non il livello qualitativo della propria vita. Non sono così sicuro – come molti – che Bernie Sanders sarebbe riuscito a battere Trump anche se forse era assai probabile, visti gli stati dove i democratici ci hanno lasciato le penne. Sono però assai confidente che Biden avrebbe avuto forse la capacità di tenere insieme meglio l’elettorato democratico. Troppo violenta la campagna anti Clinton di Sanders durante la selezione per non aver ripercussioni poi a novembre.

Adesso, otto anni dopo quel magnifico primo discorso di insediamento, Barack Hussein Obama se ne va e ci lascia tutti un po’ più orfani: del suo carisma, della sua capacità oratoria, del suo straordinario talento e del suo eccezionale rigore morale. Ci mancherà il suo essere così riflessivo nelle risposte, quelle sue pause che denotavano una vera ponderazione delle parole, a differenza di tanti politici – specialmente nel nostro Paese – che spesso aprono bocca vomitando tutto il qualunquismo di cui un politico è capace. Domani, a quest’ora circa, ci prepareremo tutti ad assistere al giuramento di Donald J. Trump, il Berlusconi americano, l’uomo che ha reso possibile ciò che nessuno pensava si potesse mai realizzare: l’aver reso ridicolo il già ridicolo di suo Silvio, un dilettante delle gaffe e un profondo democratico al confronto.

Ci consola sapere che c’è la concreta possibilità che Trump faccia un solo mandato oppure – mal che vada – fra otto anni passerà comunque la mano, perché questo prescrive la Costituzione americana. Ma la vera tranquillità ci proviene proprio dalla loro Carta che garantisce che nessun individuo, neppure il Presidente, abbia poteri enormemente esagerati, dovendo condividerli comunque con il Congresso, la Corte Suprema, i singoli stati, come già in questi giorni abbiamo visto con le audizioni di conferma al Senato di alcuni membri del prossimo gabinetto. Perché la vera garanzia – in una democrazia – non sono soltanto le elezioni: quelle sono la condizione necessaria affinché una democrazia ci sia. Viceversa ciò che garantisce i cittadini di fronte a qualunque ipotetico sopruso sono l’equilibrio fra i poteri dello stato, la loro ordinata transizione, il rispetto supremo della Costituzione e la rigorosa libertà di espressione.

Perciò, caro Barack, grazie e addio. Ti lasciamo con le parole di un grande poeta inglese, Samuel T. Coleridge, ultime reminiscenze liceali di quasi trent’anni fa:

Farewell, farewell! but this I tell
To thee, thou Wedding-Guest,
He prayeth well, who loveth well
Both man and bird and beast.

Tu hai sicuramente amato bene.

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