Tu chiamale se vuoi, elezioni!

 In POLITICA
Ripassino istituzionale, visto che finalmente anche nella maggioranza che sostiene il governo qualcosa si muove per cambiare l’assurda legge elettorale chiamata Italicum. Dunque: a cosa servono le elezioni politiche? Se provate a rivolgere tale domanda a chiunque abbia votato dopo il 1993 (anno del referendum elettorale che portò poi al maggioritario uninominale del Mattarellum) sono abbastanza certo che la stragrande maggioranza risponderà – senza esitare – che esse servono per stabilire chi governa e chi fa opposizione, cioè chi vince e chi perde le elezioni.

La risposta invece corretta è: “dipende”. Sì, perché formulata in quel modo la domanda contiene inganni a più livelli. Innanzi tutto: a quale forma di governo ci rifacciamo? Se si parla di un sistema di tipo presidenziale, sul modello americano o francese, allora è evidente che l’elettorato in quel caso stia scegliendo chi sarà rivestito del Potere Esecutivo per tutta la durata del suo mandato. In quei sistemi, il Potere Legislativo spetta rigorosamente alle Camere che sono elette in maniera tale da garantire indipendenza fra i due voti. Nel caso americano – per esempio – contemporaneamente all’elezione presidenziale si elegge la Camera dei Rappresentanti la quale dura soltanto due anni e l’elezione avviene con collegi uninominali a turno unico. Chi ha più voti si porta a casa il collegio. Punto. Stessa cosa avviene per il Senato che però viene rinnovato per un terzo e il mandato dura sei anni. Il potere del Presidente non è infinito come in molti sono soliti pensare e lo stesso dicasi per il Congresso che non può ostacolare in tutto la Casa Bianca qualora sia di diverso orientamento politico.

Analogamente in Francia: oltralpe il sistema è definito semi-presidenziale perché il Potere Esecutivo lo dividono il Presidente della Repubblica e il Governo che deve ottenere la fiducia dell’Assemblea Nazionale, la camera bassa del parlamento francese. Le elezioni per queste cariche, Eliseo e Camera, avvengono in maniera distinta, proprio per rafforzare la scelta popolare. La coabitazione fra Presidente e Governo di segno politicamente opposto è stata abbastanza frequente, sebbene ultimamente la riduzione del mandato presidenziale da sette a cinque anni, con le elezioni politiche dopo qualche mese da quelle presidenziali ha ridotto il rischio di un governo espressione di una maggioranza diversa da quella che elegge il Presidente.

Nei sistemi parlamentari invece noi siamo chiamati a votare per il rinnovo delle Camere e soltanto a posteriori il Capo dello Stato, Presidente della Repubblica o Monarca che sia, conferisce a un esponente politico l’incarico di formare un governo che poi deve ottenere o meno la fiducia del Parlamento (di uno o entrambi i rami questo dipende dalle costituzioni dei singoli stati). In nessun caso, sia nelle repubbliche parlamentari che nelle monarchie costituzionali, le elezioni politiche servono per eleggere un governo o “per sapere chi ha vinto o chi ha perso la sera stessa del voto“, tanto per utilizzare parole care al nostro attuale Presidente del Consiglio e la sua vasta schiera di supporter. Insomma il “pareggio”, la “non vittoria”, la “mezza vittoria” è contemplata ampiamente dalle regole della democrazia stessa e in quel caso le forze politiche sono chiamate a uno sforzo maggiore, a cercare più ciò che le unisce piuttosto che ciò che li divide.

È quanto da qualche tempo accade in Germania, dove la Cancelliera Merkel ha deciso di accordarsi con gli avversari socialdemocratici pur di varare un governo che fosse rappresentativo della maggior parte dell’elettorato tedesco: avrebbe potuto raccattare qualche voto di estrema destra, magari promettendo qualche misura populista contro l’immigrazione. Il sistema tedesco – tanto per usare il metro (il numero dei governi) adoperato da Renzi – è il più stabile che esista (se per stabilità intendiamo la durata dei governi) visto che per cambiare cancelliere serve che ci sia una maggioranza alternativa, poiché vige il principio costituzionale della sfiducia costruttiva: puoi buttare giù un governo soltanto se hai un altro cancelliere con una bella maggioranza pronta. Altrimenti ti becchi il governo che c’è fino alla scadenza naturale della legislatura, a meno di dimissioni (e il sistema elettorale è proporzionale con sbarramento).

Nel Regno Unito, che tanto unito proprio oggigiorno non appare, dopo Brexit, le cose sono state un tantino più facilitate per il fatto che si è sempre votato in collegi uninominali a turno unico, praticamente fra due soli partiti, che facilmente esprimevano un Primo Ministro proprio, senza ricorrere a coalizioni. Le cose sono cominciate a complicarsi quando il terzo partito, i Lib-Dem, hanno iniziato a crescere così tanto che nella scorsa legislatura (2010-15) David Cameron ha dovuto formare un governo di coalizione e lo scorso anno lo ha evitato per un soffio. Nessuno però oltre Manica si sognerebbe mai di considerare l’elezione politica una scelta diretta e popolare del Capo del Governo, sottraendo il potere di nomina del primo ministro alla Regina e il potere di designazione al partito: infatti con le dimissioni di Cameron sono sempre stati i Tories a trovare al loro interno il successore del loro leader sconfitto al referendum ed Elisabetta II non ha fatto altro che ratificare la scelta conservatrice di Theresa May, incaricandola di formare il nuovo Governo di Sua Maestà.

Finalmente nel nostro Paese si sta comprendendo che le elezioni per il Parlamento servono appunto per eleggere un’assemblea di rappresentanti (a una o due camere, non è questo l’oggetto della discussione). Se le forze politiche ce la fanno a costruire sul voto una maggioranza, anche con un loro leader e candidato premier (che sia il segretario di partito o il capo di una coalizione poco importa) bene: altrimenti è il Parlamento, che rappresenta la volontà popolare e come tale non può derogare dalla rappresentatività delle forze politiche, a dover trovare al proprio interno quella maggioranza in grado di ottenere il voto di fiducia.

Quindi se si vuole eleggere il Governo allora sarebbe meglio cambiare forma di governo e introdurre un sistema presidenziale, totale come quello americano o dimezzato come quello francese. Ma se si vuole continuare – come anche il ddl Boschi ritiene – in una forma di governo parlamentare non si può prescindere dal fatto che le elezioni servano per rinnovare la/le Camera/e, cioè a far scegliere i propri parlamentari dai cittadini.

Semplice.

E fa piacere che finalmente anche il Presidente Emerito della Repubblica Giorgio Napolitano abbia fatto aggiustare il proprio pallottoliere, evidentemente rotto tre anni fa dopo le politiche del 2013: era già chiaro all’epoca che il sistema politico italiano fosse diventato da bipolare a tripolare e non può essere una legge elettorale a forzare la rappresentatività dell’elettorato e la libera scelta del popolo. E siamo persino d’accordo con l’ex Capo dello Stato nel ritenere l’impianto dei collegi uninominali del Mattarellum adeguato a garantire il rapporto diretto fra elettore ed eletto, visto soprattutto le dimensioni dei collegi molto più stretti rispetto alle enormi circoscrizioni dell’Italicum (quasi sei volte maggiori).

Quindi forza, Presidente, un ultimo sforzo e convinca chi di dovere a sbrogliare la matassa. Forse solo a lei dà ascolto.

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