L’erede

 In POLITICA
Con un colpo da maestro che non si vedeva dalla parti di Palazzo Grazioli da almeno una decina d’anni, quando durante l’ultimo confronto televisivo con Romano Prodi guardò dritto in telecamera e promise l’abolizione dell’ICI sulla prima casa, ieri Silvio Berlusconi è tornato prepotentemente sulla scena politica con un coup de théâtre che in pochi ormai credevano fosse ancora in grado di compiere.

E si sbaglia di grosso sia chi crede che sia stata soltanto la mossa disperata per provare a vincere il Campidoglio o chi viceversa ritiene che questo sia un favore all’alleato invisibile, quel Matteo Renzi che il Cavaliere non ha mai disdegnato di ammirare, specialmente da quando il boy scout di Rignano ha continuato l’opera di devastazione dello stato sociale esistente cominciata ad Arcore nel 2001 e di progressiva marginalizzazione della sinistra, la cosiddetta minoranza PD di D’Alema e Bersani.

Non so se Alfio Marchini sia in grado di vincere la competizione elettorale per la poltrona di sindaco di Roma anche se certamente ha molte più chance di arrivare al ballottaggio di quante ne avesse la candidatura Guido Bertolaso, che a questo punto forse nemmeno più sappiamo quanto fosse “vera” e quanto invece fosse un bluff, per distogliere l’attenzione dal vero colpo di scena di ieri, a una settimana esatta dalla scadenza dei termini per la presentazione di liste e candidati.

In verità con l’endorsement pesante di Silvio Berlusconi sull’erede della famiglia di costruttori romani, chiamata Calce e Martello per la vicinanza storica del nonno Alfio al Partito Comunista Italiano, il Cavaliere scioglie definitivamente tutte le riserve sulla sua successione e incorona il suo erede anche a livello nazionale nella figura di questo imprenditore che incarna tutto ciò che per lui dev’essere una candidatura in grado di competere con il Partito Democratico. Marchini è oggettivamente bello, telegenico, comunica bene e pur avendo legami con la storia comunista è pur sempre un esponente della società civile: insomma è un “Berlusconi” ma del 2016, uno che può presentarsi come non politico, proprio come il proprietario di Mediaset fece nel 1994 con il famoso discorso della discesa in campo.

Se ci trovassimo nei panni di Matteo Renzi non dormiremmo affatto sonni tranquilli e rivedremmo la strategia del Nazareno che proprio oggi vedrà l’allargamento della maggioranza al gruppo guidato dal pluri inquisito e già condannato in primo grado Denis Verdini, con il solo scopo di annullare qualunque influenza in Parlamento possa ancora avere l’opposizione interna del proprio partito che lo stesso segretario ha definito ormai un’opposizione a prescindere (l’ha detto durante il recente viaggio in Messico), nonostante i fatti proprio lo contraddicono visto che bersaniani e dalemiani hanno sempre votato la fiducia al Governo, pur non condividendo molti dei provvedimenti, proprio per quella disciplina di partito tanto invocata dai vertici democratici e non sempre rispettata nel quadriennio a guida Bersani. L’allargamento a Verdini potrà forse servire in Parlamento per portare avanti i progetti non sempre progressisti disegnati dal PD e dalle lobby che lo sostengono (si legga l’Espresso in edicola questa settimana per ulteriori approfondimenti) ma la sensazione è che nel Paese e soprattutto in quelle aree dove ancora è forte il sentimento di un partito ancorato al centrosinistra e all’Ulivo, la presenza organica nella maggioranza di governo dell’ex braccio destro del Cavaliere possa più nuocere che portare beneficio, specialmente alle urne.

E non dovrebbe fare salti di gioia nemmeno l’ex delfino del Cavaliere Angelino Alfano che con la sua creatura, un partito con più poltrone che elettori, si trova un competitor per la guida del centrodestra che non è certamente in grado di contrastare e che in una campagna elettorale nazionale contro Matteo Renzi e Luigi Di Maio (sempre che rimarranno loro due i leader dei rispettivi partiti) ha molte più chance di quante ne possa contare l’avvocato agrigentino che di appeal non sembra ne abbia poi molto.

Comunque vada il 5 giugno, Alfio Marchini ha già vinto anche se dovesse perdere il Campidoglio. Anzi l’eventuale sconfitta nelle amministrative sarà – con le dovute proporzioni – ciò che fu la prima corsa per il Congresso di un giovane avvocato afro-americano di Chicago che poi fece tesoro di quella sconfitta alle primarie democratiche e costruì la sua carriera prima al Senato del suo stato – l’Illinois – e poi in quello federale. La storia – lo sapete – finì con il suo insediamento alla Casa Bianca poco meno di otto anni fa: non ci stupiremmo quindi se fra due anni, o anche prima, quando si dovesse votare per le politiche sarà Matteo Renzi a dover consegnare la campanella dei lavori ad Alfio Marchini e ad andarsene molto più sconsolato di quanto fece Enrico Letta nel febbraio di due anni fa, visto che quest’ultimo con la sua mostruosa preparazione non ha avuto certamente tanti problemi a ricollocarsi nel mondo del lavoro.

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