Verso la mezza età
Mi è tornata in mente questa domanda qualche sera fa al cinema. Siamo andati a vedere “Forever Young”, il divertente film di Fausto Brizzi su un gruppo di quasi cinquantenni che non si “rassegna” al tempo che passa, preferendo essere appunto forever young.
È un film a tratti esilarante, con un immenso Fabrizio Bentivoglio perfetto nella parte del fresco cinquantenne che oscilla fra un amore maturo con una coetanea (una bravissima Lorenza Indovina) e l’eterna giovinezza con una ventenne con la quale convive, insieme ai ritmi esasperati di una gioventù che per un uomo di mezza età diventa una sfida enorme, anche fisicamente.
Un film manifestamente renziano, almeno del Renzi delle prime Leopolda non certamente quello governativo. D’altra parte Brizzi ne fu regista di quell’evento e della “rottamazione” ne è stato l’espressione visiva: ma nel film egli non fa sconti ai giovani, anzi. Alcuni sono rappresentati peggio dei bamboccioni di Padoa Schioppa, niente di esaltante: il cambio generazionale a volte rappresenta persino un peggioramento, almeno in termini qualitativi, spesso – relativamente ai numeri che misurano il successo odierno, cioè i like su Facebook o i RT su Twitter – salvato dai vecchi che a volte si reinventano un ruolo sociale persino a scapito di se stessi (e in questo Lillo mette in scena un personaggio straordinario).
In realtà a 40 anni non siamo né giovani né vecchi: dopo lo choc iniziale del “cambio” della cifra iniziale dei tuoi anni, cominci invece a capire che questo decennio è bellissimo.
Sul lavoro finalmente sei libero: a 25 anni hai il furore del neo laureato, pensi che tutto sia da guadagnare e accetti qualunque cosa perché la ritieni parte della gavetta. A 30 ti senti invulnerabile, rampante, pronto a qualunque sacrificio perché ti immagini già Managing Director di una multinazionale, lanciato a stipendi a sei cifre: pensi che sia normale avere benefit aziendali, anzi li dai per scontato.
A 40 invece capisci che ormai per i fondelli non ti può prendere più nessuno. Hai visto già abbastanza del mondo del lavoro per capire che salvo pochi – in Italia pochissimi e quasi tutti gli eletti di un sistema in larga parte “parentocratico” – tutti gli altri sono criceti che corrono dentro la loro bella ruota. Li fanno illudere che il premio sia quel cibo là davanti ma in realtà essi servono soprattutto a generare l’energia meccanica della ruota che serve a gonfiare il portafogli di altri.
Solo che adesso hai finalmente sviluppato gli anticorpi e le infezioni, che prima ti portavano a febbroni da cavallo, ora non ti agguantano più.
Sei libero, cominci a possedere una serena accettazione della tua condizione di vita, provando magari a correggere per quel che si può la rotta verso una direzione che senti più tua. Accetti il lavoro per quel che è, senza riporre in esso quella valenza salvifica che dieci anni prima avevi riposto, come se la tua esistenza si fondesse in esso e da esso dipendesse, comprendi finalmente che tu “fai” un lavoro e non “sei” il lavoro: c’è altro nella vita.
Sei libero anche di dire la tua, di andare contro corrente, di sbagliare e di tornare indietro: accetti con molta più serenità – anche se con tanto dolore – gli effetti di scelte recenti e passate che adesso capisci essere state sbagliate ma che senza di esse tu non saresti comunque quello che sei adesso, quello che finalmente cominci ad apprezzare, con i tuoi pochi pregi e i tuoi tanti difetti.
Sei libero di progettare il tuo futuro senza timore di deludere qualcuno: puoi finalmente dedicarti alle tue passioni perché per fortuna hai capito che senza quelle la vita ha poco senso.