Voto a perdere

 In POLITICA
Se Hillary Clinton, il prossimo 20 gennaio, dovesse trovarsi con la mano sulla Bibbia (probabilmente retta dal marito Bill) e giurare come 45° Presidente degli Stati Uniti non sarà soltanto per meriti propri. Se dovessimo ascoltare il suo primo discorso inaugurale, dalla balaustra di Capitol Hill, il Campidoglio stelle e strisce, sarà anche per merito di quegli elettori repubblicani che fuggiranno dall’ormai quasi sicuro prescelto del loro partito, quel personaggio inquietante, misogino, razzista e fascista che è Donald Trump.

Analogamente, qualche mese prima, se a qualche migliaio di miglia di distanza, nel cuore del Mediterraneo, una brillante avvocata di 37 anni dovesse salire le scale del Palazzo Senatorio, nell’originale Campidoglio, per prendere possesso dell’ufficio più bello del mondo, non lo dovrà soltanto alle sue indubbie doti comunicative e alla sua preparazione giuridico-politica. Se Virginia Raggi dovesse infatti diventare Sindaca di Roma lo sarà anche – se non soprattutto – perché gli elettori avranno deciso di dare una lezione al Partito Democratico, nazionale e locale, e al suo segretario/premier Matteo Renzi, vero dominus della politica italiana.

Vi potrà forse sembrare ardito il parallelo fra l’ex First Lady degli Stati Uniti d’America e l’ex praticante nello studio Previti ma in verità non lo è più di tanto: sono le due facce di una stessa medaglia che è la personalizzazione esasperata della politica e della contesa elettorale.

Crollate le ideologie novecentesche, queste sono state sostituite da potenti comitati d’affari (la campagna americana – si stima – costerà ben oltre i due miliardi di dollari della precedente, praticamente più della metà della manovra sull’IMU del Governo Renzi o del celebre bonus di 80 euro, giusto per dare un’idea di quanti quattrini siano!) e da rigurgiti populisti più vicini alle derive sudamericane che alla storia delle grandi democrazie europee. E se gli Stati Uniti probabilmente conosceranno per la prima volta un così forte “voto contro” (tutto sommato la novità “colorata” di Obama fu osteggiata ovviamente dalle frange più estremiste dei repubblicani mentre fra i Democratici ci fu un accordo forte e serio prima della nomination per evitare inutili “bagni di sangue” e riportare l’Asinello dentro la Casa Bianca), in Italia stiamo cominciando ormai ad abituarci e a ritenere ogni consultazione – europea, amministrativa o referendaria che sia – come una sorta di plebiscito non soltanto sul Governo ma soprattutto sul suo Capo.

Se ai tempi della Prima Repubblica, dopo un’elezione, al più potevano cambiare gli equilibri interni alla maggioranza o al partito di maggioranza relativa (la DC), con l’avvento della Seconda e la personalizzazione impressa da Silvio Berlusconi, qualunque ricorso alle urne diventava il pretesto per il referendum sul governo in carica e sul Cavaliere. D’Alema addirittura personalizzò il voto regionale nel 2000 per ricavarne la legittimazione popolare che riteneva di non possedere e che infatti il corpo elettorale gli negò, a differenza di quanto accadde due anni fa quando Renzi invece la ottenne. Contro Berlusconi sono state mosse masse intere (l’ultima fu per il referendum sui beni comuni del 2011 che contribuì ad affossare l’ultimo governo del Cavaliere) e – grazie al Porcellum – persino accozzaglie elettorali indigeribili come quella del 2006, che spaziava da Mastella a Bertinotti, con una ripartizione “scientifica” delle poltrone (al leader di Rifondazione la Presidenza della Camera, quasi a sottolineare che i nuovi comunisti potessero tranquillamente aspirare a ruoli istituzionali, al ras di Ceppaloni il Ministero di Grazia e Giustizia e 100 componenti globalmente al governo, record finora imbattuto).

Adesso siamo a un salto di qualità: pur di abbattere non tanto un governo, ma Renzi (lui proprio), vedremo che si concentreranno sugli avversari del PD i voti di chiunque voglia dare una lezione al segretario del partito. Voti che una volta si sarebbero comunque dati turandosi il naso (come sostenne Montanelli a favore della DC) o per disciplina di partito (la vecchia obbedienza al partito nel vecchio PCI) ma che oggigiorno, con l’evoluzione (o involuzione, dipende dai punti di vista ovviamente!) dei partiti più verso gruppi di potere attorno a un capo anziché luogo di confronto anche duro, adesso vengono adoperati come frecce di un arco puntato contro chi rappresenta l’avversario. Che non è più il “nemico” comunista o il partito della Chiesa: è ormai proprio una persona.

A Roma, dove per ovvie ragioni di vita quotidiana sono più interessato al voto, di programmi per la città non se ne parla proprio, con il risultato che è gioco facile per la Raggi, volto per la prima volta normale di un movimento di incazzati perenni (Di Maio – il moderato per eccellenza dei grillini – appare molto meno preparato della candidata romana), viaggiare a vele spiegate verso il Campidoglio senza raccontare quale sia il “modello” di Roma che vorrebbe disegnare nei prossimi cinque anni, a parte i soliti discorsi sugli sprechi (ultimamente è il turno dell’ATAC) e sullo spoils system (è recente la polemica con Caltagirone e il Messaggero sul management di Acea, guidato peraltro da un toscano, ovviamente renziano).

Se su Hillary si concentreranno probabilmente i voti dei repubblicani più moderati e di chi avrebbe certo visto di buon occhio l’ex sindaco di New York, l’indipendente Michael Bloomberg, proprio per il timore di trovarsi uno come Trump a giocare con la valigetta atomica (non oso nemmeno immaginare il “dialogo” a suon di testate nucleari fra “The Donald” e il leader nord coreano), su Virginia Raggi invece convergeranno probabilmente i voti non soltanto della Meloni (che lo ha già annunciato, caso più unico che raro nella storia di un candidato che già quasi ammette di non poter arrivare al ballottaggio!) ma anche di moltissimi elettori di sinistra che avvertono che soltanto così – o con l’astensione o le schede bianche – probabilmente si potrà dare un segnale a un governo che non piace e a un segretario-premier che non si sopporta più.

Così a Roma, ma lo stesso a Torino o a Napoli: i programmi elettorali per queste città sono scomparse dai radar dei media nazionali e non è che si legga molto su quelli locali. Ultimo, in ordine di tempo, vi è stato anche il video del sindaco partenopeo De Magistris che ha attaccato frontalmente non un suo avversario (peraltro quale, verrebbe da chiedersi!) ma proprio Renzi. La ragione mi sembra persino evidente: il Capo del Governo, indossato a turno il cappello di segretario del partito o quello di premier, entra a piedi uniti nelle vicende locali (a Roma siamo arrivati quasi ai limiti della legalità, con le dimissioni – forzate dal partito – dei consiglieri democratici in barba a qualunque galateo di responsabilità quinquennale nei confronti della rappresentanza popolare, una vera manna per l’opposizione del tempo che infatti si fiondò dal notaio per firmare le proprie), ultima in ordine di tempo la polemica su Bagnoli con il sindaco di Napoli che – da peso massimo anche lui della politica – ha risposto per le rime.

Si salva forse soltanto Milano dove i due candidati sono così speculari che sembra quasi che siano la stessa persona: Beppe Sala, commissario dell’Expo e acclamato candidato renziano del PD, che ha vinto le primarie del centrosinistra grazie al solito masochismo della sinistra più radicale, potrebbe tranquillamente essere il candidato del centrodestra. Specularmente, Stefano Parisi, candidato unitario del centrodestra, potrebbe tranquillamente essere il candidato renziano del PD: non c’è contrapposizione, non c’è contrasto, non ci sono chissà quali differenze di vedute della città. Rappresentano plasticamente il Partito della Nazione non ancora nato ma sempre caldeggiato dal Foglio di Claudio Cerasa che ancora ieri teorizzava di un rinnovato Patto del Nazareno che dividerebbe in due il campo politico: da un lato Renzi e il governo, stavolta organicamente appoggiato da quello che rimarrà di Forza Italia dopo che finalmente Berlusconi si sarà ritirato a vita privata consegnando il paese al suo figlioccio migliore, e dall’altro la galassia di partitini e movimenti antigovernativi e antisistema, dai grillini alla sinistra radicale, passando per le destre populiste di Meloni e Salvini.

La teorizzazione quindi della super personalizzazione della contesa elettorale, anzi di una qualunque contesa elettorale, che diventa terreno non di scontro programmatico ma di duello contra personam, con il risultato – non so quanto proficuo per il celebre popolo sovrano – non più di riporre il proprio voto a favore di una vittoria del proprio candidato, di un programma o di una certa idea di società, bensì di mettere nell’urna la propria scheda elettorale riportando un voto contro l’altro, contro il capo di un partito, persino contro il capo del tuo stesso partito.

Un voto quindi a perdere e per far perdere anziché un voto per vincere. È sebbene non sia questa una novità della nostra politica, la deriva stavolta appare proprio inarrestabile. Anche perché proprio il protagonista di questa campagna contro, narcisista com’è così come Trump oltreoceano, non si sottrae di certo al conflitto permanente, avendo da tempo sdoganato – per il potere – pratiche assai discutibili.

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