Yin e yang
Venticinque anni fa esatti, il 15 ottobre 1990, un lunedì, alle 8:30 del mattino, iniziava per me un’avventura che si sarebbe conclusa poco meno di sette anni dopo. Fu il mio primo giorno da studente universitario e la prima lezione che si tenne fu quella di Analisi Matematica I.
Ho raccontato su queste pagine più volte del “dilemma” che risolsi in favore della Facoltà di Ingegneria durante la precedente estate: come molti ragazzi freschi di maturità non sapevo quale studi privilegiare, se assecondare la parte scientifica della mia preparazione scolastica (con i numeri ero bravino) oppure assecondare la passione per il pensiero, scegliendo studi storico-filosofici. Prevalse la prima e furono determinanti, nella scelta della facoltà scientifica da affrontare, le prospettive che si prevedevano per il futuro lavorativo. Scelsi Ingegneria, scovai un corso di laurea dove non si sarebbe dovuta tenere in mano una matita (a scuola nel disegno ero veramente scarso) e così mi iscrissi al corso di laurea in Ingegneria Elettronica, rimandando al terzo anno la scelta dell’indirizzo specialistico (tre anni dopo, vista la mia idiosincrasia per gli studi eccessivamente pratici, cercai di correggere il tiro optando per l’indirizzo delle telecomunicazioni: c’era più teoria e meno “pratica”).
Quella mattina arrivai alla Città Universitaria di Catania pieno di aspettative e interrogativi: ne uscii l’estate di sette anni dopo ben consapevole che per quanto noi si cerchi di correggere il tiro, provare a digerire ugualmente qualcosa che invece senti dentro di te come indigeribile, alla fine – prima o poi – il conto lo paghi. E salatamente. Mi piacevano le materie del biennio, specialmente quelle analitiche e teoriche: ho sempre amato i numeri, forse perché la Matematica è una disciplina scientifica che potrebbe benissimo stare in un corso di Filosofia. D’altra parte molti dei filosofi dell’antichità erano essi stessi dei matematici. Ma il resto …
Dopo un quarto di secolo, l’estate scorsa, mi sono ritrovato proprio a pensare a quella scelta: il vice direttore del Fatto Quotidiano, Stefano Feltri, ha scatenato un putiferio in rete commentando uno studio recente sui corsi di laurea universitari, invitando i giovani a non privilegiare a ogni costo le proprie passioni, a meno che non fossero pienamente coscienti che un “filologo” avrebbe in futuro fatto la “fame” mentre un ingegnere (o un economista) avrebbe trovato presto un lavoro, con buone prospettive di una retribuzione decente. Nel dibattito che ne è seguito Feltri non soltanto ha difeso la sua tesi, ma ha persino ipotizzato che la collettività non si dovesse fare carico della formazione degli studenti dei corsi di laurea umanistici e più in generale di tutti i corsi di laurea e di tutti i percorsi di ricerca non direttamente collegati a sbocchi lavorativi buoni e soprattutto quasi immediati.
Mi ha colpito questa analisi, soprattutto perché proviene da un giornalista assai più giovane di me (12 anni) e che dovrebbe avere ancora fresco l’entusiasmo della gioventù, il fuoco delle proprie passioni intellettuali, l’ardore della ricerca dell’elisir della felicità per tutti: chiunque a venti anni vuole cambiare il mondo. È a quaranta che scopri che è stato il mondo a cambiare te!
In realtà “scegliere” il proprio percorso di studi a diciotto anni non è così semplice: pesano mille cose, dal grado di maturità personale, che ciascuno di noi ha raggiunto a quell’età, alla propria vision del futuro, dalle aspettative (e talvolta pressioni) della famiglia al coraggio (e di riflesso alla paura) di compiere la scelta più giusta per sé. E quando tale scelta è compiuta seguendo soltanto la prospettiva del “posto di lavoro”, come se “sistemarsi” con un salario fosse l’unico elemento di valutazione delle proprie aspirazioni, alla fine il rischio è di creare sì una marea di occupati, più o meno capaci di sostenere i consumi della nazione, ma fondamentalmente di infelici. Aggiungo inoltre che la ricerca scientifica pura, quella intendo svincolata da qualunque ipotesi di realizzazione di prototipi ma volta semplicemente a scoprire un po’ di più come è fatta la natura, è fondamentalmente insita nella natura stessa dell’uomo da sempre (“Perché siamo qui?” è la domanda che l’Uomo si pone da quando è apparso sulla Terra). Allo stesso modo, lo studio di discipline umanistiche, dalle lettere alla filosofia, dalle lingue “morte” alla storia, serve senza ombra di dubbio a capire come si è diventati oggi a partire da come eravamo ieri. Appare bizzarro che un giovane di poco più di trenta anni, anche se abituato a una visione più economica della vita (Feltri si è laureato alla Bocconi), non si renda conto che ciascuna disciplina, anche quella che ai suoi occhi possa apparire inutile ritenendola un “costo”, sia invece un “investimento” sul futuro della società, e magari è compito delle organizzazioni universitarie preparare bene coloro che compiono tale scelta, aiutando chi non è “portato” a correggere la mira delle proprie aspettative e ambizioni.
Personalmente io quella scelta degli studi l’ho vissuta e la vivo ancora come un dilemma irrisolto: un eterno duello fra la luce e il buio, il giorno e la notte, la cosa giusta e quella sbagliata. D’altra parte “pesare” gli effetti che quella scelta ha portato alla mia vita è certamente complicato. Se mi basassi esclusivamente sul metro di giudizio di Feltri, non c’è dubbio che tutto sia andato abbastanza bene: nemmeno tre mesi dopo la fine del servizio militare il mio buon posto di lavoro l’avevo trovato, nel campo dei miei studi e fu l’inizio di una normale carriera del tempo. E anche gli effetti “personali” di quella scelta sono stati tutto sommato ottimi, a meno di questa vita romana che mal sopporto: se ho conosciuto Silvia e poi ho avuto lo straordinario dono di Elisa è perché conobbi una persona che conosceva già mia moglie e che poco più di dodici anni fa ci fece incontrare. Allo stesso modo, se invece usassi un’altra unità di misura, non basata sui “conti economici” del giornalista, sicuramente arriverei a conclusioni diverse, ben più deprimenti.
Ciò che scopri crescendo è invece il fatto che pensarci è perfettamente inutile e per quanto si continui a guardare indietro, alle scelte effettuate che si è ben consci non possono essere certamente più cambiate, non ti accorgi che la vita nel frattempo sta continuando a trascorrere e ti consente – a prescindere dalle opportunità che si siano colte o meno nel passato – di correggere il tiro e di cominciare a camminare sui binari che puoi scegliere e che puoi finalmente percorrere.
Noi maschietti quarantenni (e anche cinquantenni!), che abbiamo terminato gli studi scolastici negli anni Ottanta e ci siamo laureati nel decennio successivo, siamo stati bombardati mediaticamente e familiarmente di aspettative di carriera, di “dovere”, del “non poter sbagliare mai”: ci perdiamo di vista che nella vita, quella vera che scorre inesorabilmente e ti porta a cinquanta e sessanta anni senza che nemmeno te ne accorgi, l’unica cosa veramente da imparare a fare è quella di cercare la propria felicità, da soli e insieme ai propri cari, insegnando ai propri figli che non soltanto è possibile essere felici, ma che quella felicità va cercata, conquistata e posseduta.
Qualche giorno fa, ho letto questo pezzo di Chiara Cecilia Santamaria, la brava blogger che ormai da Mummy-Blogger si è trasformata sempre di più in autrice (recentemente ha pubblicato il suo romanzo d’esordio con Rizzoli, libro che ho cominciato a leggere da poco): facile – almeno per me – riconoscersi un po’ nel suo “Lui”, la perenne insoddisfazione per una carriera che non volge come avresti un tempo desiderato. Il punto è che è perfettamente inutile continuare nell’insoddisfazione cronica e decisamente patologica: la serena accettazione di quello che si è, con i propri pregi, i tanti difetti, le proprie legittime aspirazioni e le altrettanto legittime titubanze e preoccupazioni di chi ti circonda, è il necessario primo passo affinché quel proposito che Chiara fa nel suo post, di insegnare alla sua bambina (coetanea della mia) e cioè che la ricerca della felicità sia possibile e realizzabile.
Scrive la blogger: «Devo mostrarle che in ogni momento e in qualsiasi circostanza siamo meritevoli e capaci di felicità. Questo è il primo impegno, il primo insegnamento». Ecco, sposo in toto il post di Chiara, soprattutto nella sua parte di autocritica: «Mia figlia non potrà imparare ad essere felice se ha due genitori perennemente insoddisfatti».
Anche per me insegnare la felicità alla mia bambina è un impegno: purtroppo non potrà essere il primo, ma certamente il secondo, perché prima c’è da rimuovere – si spera per sempre – il macigno di un dilemma ancora irrisolto e che è causa dell’insoddisfazione che mi porto ormai dietro da decenni.
Ma già riconoscerlo è un gran passo avanti.
(photo credit: immagine trovata su internet)