L’estate di 25 anni fa

 In LIFE
Iproblemi principali che mi arrovellavano il cervello, nell’estate di 25 anni fa, non erano certamente gli scritti di italiano e matematica né certamente le due materie scelte, italiano (da me) e inglese (dalla commissione, si fa per dire!). Avendo una robusta preparazione nel complesso di tutte le materie sbucate fuori dalla lotteria ministeriale (c’erano anche Storia e Scienze) non è che non ci dormissi proprio la notte per gli esami di maturità.

In realtà quell’estate la preoccupazione era soltanto una: «e se dovessi fare l’orale proprio il 9 luglio?».

Prima che vi precipitiate a scoprire che giorno fosse, vi dico subito che era un lunedì, primo giorno della settimana, il giorno dopo la finale del Mondiale italiano a Roma, quello di Totò Schillaci, delle Notti Magiche. Avevo dato per scontato che a quell’appuntamento, allo Stadio Olimpico restaurato per l’occasione, davanti al Presidente Cossiga ci sarebbe stata la nazionale di Azeglio Vicini. Avremmo vinto e io sarei andato in giro per la città come otto anni prima, quando dopo la vittoria sui tedeschi al Bernabeu, uscimmo per le strade del lungomare catanese armati di bandiera, strombettando tutta la sera ebbri di felicità.

Naturalmente – in stretta osservanza della legge di Murphy, per cui se una cosa non vuoi che accada essa inevitabilmente accadrà – il sorteggio della commissione d’esame portò proprio a quel risultato e io sarei stato il secondo della giornata del 9 luglio.

Lunedì.

Il giorno dopo la finale del Mondiale.

La preoccupazione per la sfortuna occorsa, in un crescendo di elucubrazioni sempre più crescenti («ma porca miseria! Non poteva uscire un’altra lettera?». «A quello lì» – pensando a un compagno di classe poco interessato al gioco della palla – «il calcio nemmeno piace: non poteva farli lui gli esami il 9?») che denotavano una seria perdita di controllo proprio in vista dell’esame, fu spazzata via grazie a Claudio, Diego e a Walter: quest’ultimo non aveva nulla a che vedere con la comicità della Littizzetto ma più semplicemente era il nome del portiere della Nazionale azzurra Zenga, in vena di caccia alle farfalle al 68° minuto di Italia – Argentina, lasciando via libera a Claudio Caniggia che di testa pareggiò il vantaggio iniziale degli azzurri a opera di Schillaci. Diego (Maradona, ovviamente, chi altri se no?) siglò l’ultimo rigore, dopo che Roberto Donadoni e Aldo Serena avevano sbagliato gli ultimi due tiri dal dischetto di quella maledetta notte al San Paolo di Napoli.

Ancora oggi – venticinque anni dopo – ricordo perfettamente dove mi rifugiai mentre dallo stadio partenopeo la televisione mandava analisi, processi e interviste: accucciato come un cane bastonato in mezzo al corridoio, incredulo che le mie notti magiche fossero terminate in quel modo, con un solo gol (l’Italia subì soltanto un’altra rete, nella finalina di consolazione a Bari, terminando quel mondiale imbattuta sul campo) e con le solite e tradizionali polemiche sulle due punte da schierare, se il duo blucerchiato Mancini-Vialli (entrambi in chiara sfortuna mondiale!) o se invece fosse da preferire schierare dall’inizio la coppia nuova della Nazionale, l’ancora giovane Roberto Baggio – l’immenso Divin Codino che quattro anni dopo trafiggerà nuovamente il mio cuore! – e il mio conterraneo Totò Schillaci.

Il resto lo conoscete: quella tanto temuta finale vide la vittoria della Germania per un rigore abbastanza generoso, con l’Olimpico che fischiò l’inno argentino e Diego Armando Maradona che in diretta planetaria si lasciò andare a non troppo velate allusioni sul mestiere delle madri degli ottantamila spettatori dello stadio romano.

Partita brutta, la Germania raggiungeva l’Italia per numero di stelline da appuntare sulla maglia e io potevo chiudere tutto e dormire per l’ultima volta da studente liceale. Il giorno dopo sarebbe finita la mia esperienza scolastica.

Sono trascorsi venticinque anni da quell’ultimo giorno di scuola e ancora oggi ricordo quell’esame come l’Esame, con la maiuscola, come sicuramente sarà per la stragrande maggioranza di chi poi ha fatto esami all’università perché la Maturità, l’Esame di Stato, era lo spartiacque fra la vita da ragazzo e la vita adulta.

C’era una professoressa di inglese bellissima: bionda, occhi azzurri, alto atesina. Sicuramente era molto più giovane di quanto sia io oggi! Cominciammo a parlare però prima di italiano (la materia scelta), con il professore di lettere e il presidente (anche lui di lettere!) che iniziarono a tartassarmi su Foscolo (Dei sepolcri) e Dante (il sesto canto, quello politico), occasione quella della Divina Commedia per fare qualche digressione verso la storia e la politica del tempo, visto che qualche mese prima era stato abbattuto il Muro di Berlino e due mesi dopo sarebbe stata unificata la Germania. Poi si passò all’inglese: qualche domanda sul romanticismo, la Ballata del Vecchio Marinaio di Coleridge, la mia preferita (scoprii con molto piacere che fu citata nel mio film preferito, la Mia Africa, per la voce sublime di Robert Redford) e finimmo nuovamente a discutere di filosofia e storia, sotto lo sguardo compiaciuto del membro interno, il mio professore di Filosofia che non capiva un’acca di inglese (aveva studiato il tedesco – da buon marxista – e il francese – come spesso si faceva in Italia negli anni ’60) ma che evidentemente aveva carpito il nome di qualche filosofo nel discorso appassionato che la bionda insegnante e io avevamo intrapreso.

Mi congedarono e la mia mamma mi chiese cosa volessi fare per festeggiare: andammo a prendere una granita con brioche (due!), gelsi con panna (sopra e sotto!), prima di andare finalmente in vacanza. Fu l’unico esame che la mia mamma vide: sei mesi dopo, un attacco cardiaco se la portò via e con lei anche gli ultimi aneliti dell’adolescenza.

Un quarto di secolo è trascorso da quell’esame e da quel mondiale: di prove scolastiche ne ho sostenute moltissime altre, visto il percorso di studi intrapreso (ingegneria), ma il ricordo di quel Liceo – oggi vastamente popolato mentre allora non contava nemmeno 400 studenti – è fra le cose più belle che conservo nel mio cuore. Di mondiali ne dovetti soffrire altri tre prima di tornare a gioire nel 2006 (sempre il 9 luglio, pensate un po’!) con la Nazionale di Lippi a Berlino: un po’ di amaro in bocca, ogni volta che in televisione fanno vedere l’uscita di Zenga sulla bionda chioma dell’ala argentina, ancora però c’è.

Non partii per l’Inghilterra quell’anno, come avevo fatto nelle due estati precedenti, preferendo soltanto il mare e un viaggio con la mia famiglia sulle Dolomiti che mi portarono a visitare anche Vienna e infine – di ritorno – Roma (era evidentemente destino!).

Oggi sono io il genitore, ho la stessa età che aveva mia mamma all’epoca ma gli esami di maturità per la mia bimba sono ancora molto lontani: partiremo dopodomani e ci godremo una zona dell’Italia che ho visitato pochissimo – la Puglia – prima di tornare nella nostra amatissima Sicilia, la nostra Isola, alle pendici di quel vulcano che a chiunque lo veda per la prima volta suscita sempre timore, mentre per noi è una sorta di presenza rassicuratrice, la certificazione di essere a casa. Chissà, magari fra un altro quarto di secolo sarà mia figlia a ricordarsi della sua estate del 2015, fra trulli e safari, mare e montagna, ridendo, scherzando e gioendo con la sua vivacissima vitalità.

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