Sic transit gloria Silvio
L’allora Cavaliere – dopo una prima stagione un po’ appannata – nel 1987 aveva scommesso su uno sconosciuto allenatore di provincia: Arrigo Sacchi. Non credo di avere molto torto nel ritenere che in quegli anni nessuno poteva immaginare che il Milan e poi il calcio in generale sarebbero stati usati da Berlusconi come messaggio, come mezzo di comunicazione, per la sua ascesa politica.
La notte di Vienna, con una partita assai tattica disputata contro il Benfica, fu la consacrazione del Milan di Sacchi, una squadra che rivoluzionò totalmente il modo di concepire il calcio in Italia, all’epoca considerato vincente soltanto quello di ispirazione trapattoniana, con trasferte al limite del cardiopalmo difendendo a oltranza striminziti vantaggi. Con Sacchi non fu così e Berlusconi intuì che quel calcio potesse essere messaggero nel mondo di altro, di una politica, di un’impresa, vincente. Avevo molte simpatie per il Milan, sicuramente per influenza placentare visto che mia mamma era una simpatizzante del Milan e di Gianni Rivera soprattutto. Per strane coincidenze che a volte mi fanno accapponare la pelle, nei giorni successivi alla sua scomparsa, in uno di quei necrologi, che si affiggono per le strade dei paesi (specialmente al Sud dove ci si conosce tutti), era apparso sotto l’annuncio del nostro lutto la scritta “Forza Milan”: Silvio sarebbe sceso in campo soltanto tre anni dopo e quel messaggio, di qualche ignaro milanista, fu una delle poche cose che mi fecero sorridere in quel periodo.
Anche io – come mamma – simpatizzavo per il Milan: avevo sostituito l’Abatino con il Cigno di Utrecht, lo stupendo Marco Van Basten. La fede calcistica era sempre rossazzurra e la squadra etnea all’epoca viaggiava fra la serie B e la serie C senza infamia e senza lode. Ma i rossoneri soddisfazioni ne davano. Due anni prima di Vienna avevano rimontato un campionato al Napoli di Maradona con un’epica vittoria a Fuorigrotta che tante illazioni ha suscitato successivamente (si dice che i partenopei si siano venduti il campionato) e soprattutto l’anno dopo c’era stata la consacrazione internazionale con una semifinale contro il Real Madrid che aveva sfatato ogni mito: non quella di ritorno, dove Baresi & co. umiliarono i galacticos con un 5-0 a imperitura memoria, bensì la gara di andata terminata con un gol per parte (uno annullato al Milan) che aveva visto per la prima volta una squadra italiana giocare in trasferta per vincere e non soltanto per fare il famoso “gol che vale doppio”. La finale con lo Steaua di Bucarest – ultimo lampo della Romania di Ceausescu – era stata ordinaria amministrazione: nessuno avrebbe potuto mai battere quel Milan al Camp Nou di Barcellona; d’altronde era fin troppo evidente che Berlusconi e Sacchi avessero puntato esclusivamente su quella competizione, visto che il Trap – passato incredibilmente all’altra squadra meneghina – aveva condotto l’Inter al record dei punti e a un grande trionfo nazionale.
L’anno dopo, con le due squadre di Milano in Coppa, la squadra di Sacchi si era ulteriormente irrobustita, dando solidità ai reparti e godendo di un grandissimo Van Basten all’apice della sua brevissima carriera. In quella stagione – il 1989-90 – il Milan fu quasi in procinto di vincere tutto: un mese prima di quella finale infatti era in corsa sia per lo scudetto che per la Coppa Italia, con il Napoli di Maradona dietro in campionato e la Juventus a sfidarla in semifinale di coppa. La monetina di Alemao prima, che fruttò una vittoria a tavolino alla squadra partenopea, e la fatal Verona dopo (il Bentegodi si confermò uno stadio maledetto per i rossoneri che su quel campo hanno perduto nella loro storia due scudetti) tolsero a Sacchi uno scudetto che sembrava cucito sulla maglia già da tempo. In Coppa Italia invece furono i bianconeri a togliere ogni velleità di triplete alla squadra di Berlusconi lasciando ai cugini interisti – molti anni dopo – l’onore di essere l’unica squadra italiana ad aver fatto il grande slam del calcio.
Nessuno – si diceva – avrebbe immaginato che quel Milan stesse per trasformarsi da squadra di calcio, il gioco preferito dalla stragrande maggioranza dei bambini e dei ragazzi lungo il nostro Stivale, a macchina per condizionare la produzione del consenso elettorale, strumento di propaganda politica per recuperare quando si è indietro (remember Balotelli?), esempio da portare nel mondo per mostrare le capacità taumaturgiche del suo proprietario, presidente, allenatore, factotum: Silvio Berlusconi.
Dopo la nottataccia di Marsiglia, con i riflettori che si spensero nello stadio dell’Olympique e sulla panchina di Sacchi, fu il turno di un allenatore molto serio, preparato e più freddo del caliente romagnolo di Fusignano: Fabio Capello. Dopo la sconfitta a Monaco in finale, a opera della squadra marsigliese del Berlusconi francese Bernard Tapie, l’attuale commissario tecnico della Russia non soltanto stravinse la Coppa dei Campioni sul Barcellona di Johann Cruijff (che ignaro dei poteri della scaramanzia s’era fatto fotografare baciando la Coppa, che riteneva d’aver vinto soltanto perché la difesa rossonera aveva Costacurta e Baresi squalificati) ma infilò una serie di scudetti uno dietro l’altro interrotti soltanto dalla Juventus di Marcello Lippi che vinse nel 1995 e giocandosi ancora la finale a Vienna ma perdendo stavolta contro l’Ajax.
Il Milan era comunque il fiore all’occhiello dell’impero Fininvest e rappresentò un altro degli incredibili tasselli dei conflitti di interessi mai risolti nel nostro Paese: il plenipotenziario Amministratore Delegato e Vice Presidente Vicario Adriano Galliani fu persino Presidente della Lega Calcio, dimostrando plasticamente cosa fosse la commistione di interessi pubblici e privati in Italia. Un Presidente di una Lega che assegnava diritti televisivi e quindi faceva affari con la principale rete TV di proprietà del suo stesso datore di lavoro e proprietario di una squadra che addirittura era Presidente del Consiglio che varò persino un decreto legge “spalma-debiti” per aiutare le società calcistiche, compresa la sua ovviamente: tutto a carico dei contribuenti!
Appariva quindi surreale che le tre volte che Berlusconi fu chiamato dal Colle a formare il Governo del Paese l’unica carica dalla quale era costretto ex lege a lasciare fosse proprio la presidenza del Milan!
Venticinque anni dopo, con la sua parabola politica ormai prossima a ritoccare la terra dalla quale era partita, Silvio Berlusconi si libera del Milan, ormai un fardello troppo pesante per la finanziaria di famiglia e lo consegna – così come Moratti con l’Inter – a un finanziere dell’estremo oriente. Finisce con questa vendita non soltanto la storia familiare di un Milan che ha cessato ormai da tempo di essere semplicemente una società sportiva (chissà se lo ritornerà) ma soprattutto è la certificazione della fine della storia politica di Silvio Berlusconi: con il suo partito ridotto a meno di quanto il vecchio PSI contava, con un elettorato ormai in fuga verso i due Mattei e Beppe Grillo, Berlusconi abdica ormai definitivamente dal ruolo che in oltre venti anni si era dato e che gli italiani avevano confermato.
In molti le simpatie per la squadra rossonera e per il calcio italiano in generale sono da tempo svanite e non soltanto per colpa di Silvio. Non è che l’ingresso di questi capitali orientali possa mai restituire la voglia di portare i nostri figli allo stadio se prima non cambia l’atteggiamento complessivo nei confronti di questo spettacolo.
Ed è forse surreale che a far crescere ancora di più il distacco verso il nostro massimo campionato abbiano contribuito proprio le televisioni commerciali che Berlusconi ha introdotto in Italia: è grazie a loro che possiamo vedere dal nostro divano di casa la Premier League, la Liga, la Bundesliga, la Championship (la serie B inglese), la Uefa Champions’ League. E la differenza è abissale fra il calcio di casa nostra e quello che vediamo all’estero, non soltanto in termini tecnici quanto soprattutto da un punto di vista del grande spettacolo sugli spalti e nel campo che settimanalmente godiamo. Non è il solo responsabile, ovviamente, ma così come in Politica la sua avventura è stata alla fine della fiera un fallimento, non riuscendo a compiere nessuna delle promesse mirabolanti che in oltre venti anni aveva annunciato, anche il calcio italiano è stato adoperato da Silvio per il suo personale interesse, strumento di comunicazione per la sua carriera, prodotto da spremere per il proprio tornaconto e non per valorizzarlo.
Anche nel calcio la gloria di Berlusconi termina nella polvere.
Addio Presidente.