Insieme si va lontano

 In LIBRI
Due sono le cose che ho pensato dopo aver concluso la lettura del libro di Enrico Letta “Andare Insieme Andare Lontano“. Innanzi tutto che i giornali italiani hanno ancora bisogno di massicce dosi di vaccino “montanelliano” per venire fuori dal berlusconismo e dalla sua copia digitale, il renzismo (Matteo Renzi non c’entra nulla – a scanso di equivoci con gli amici ultrarenziani! Parlo del culto che hanno di lui le persone, anche insospettabili). Nei giorni nei quali l’ex Presidente del Consiglio tornava sulla scena mediatica, dopo un anno di silenzio, tutti i quotidiani, network televisivi, siti, portali informativi, social network, hanno voluto interpretare il libro in chiave anti renziana, quasi come un tentativo di rivincita dell’enfant prodige dei Popolari su colui che lo aveva disarcionato in modo alquanto scomposto nel febbraio dello scorso anno.

Certo, l’intervista concessa a Fabio Fazio, che interrompeva il silenzio dopo la celebre scena della campanella, non poteva che avere come argomenti principali l’attualità politica (all’epoca la legge elettorale), il rapporto con Renzi, il tipo di partito che Letta ha in mente. Il libro invece si occupa in minima parte di quello che accadde nel febbraio 2014. Intendiamoci bene: a me, come del resto a un mostro sacro della nostra cultura come Eugenio Scalfari, il politico Letta piace, così come riconosco a lui una competenza specifica che il suo successore onestamente non ha. E non sono certo così cieco da non vedere che anche la strategia del silenzio di Letta, del suo passaggio di consegne imbronciato, della sua intervista pacata nei toni e sferzante nelle parole (quasi mai in un anno di Primo Ministro lo abbiamo mai visto così duro), della stessa volontà di alienarsi dall’agone spicciolo del Parlamento (anzi, di questo parlamento, come i più attenti avranno notato!) sia anch’essa una narrazione, uno diverso modo di comunicare, una visione volutamente alternativa da proporre al pubblico.

Ma il libro, in realtà, di queste cose che tanto piacciono a noi pettegoli del web parla poco, preferendo temi più alti della politica politicante.

D’altronde credo che non ne voglia a male Enrico se gli riconosciamo il suo essere un vero “secchione”, uno di quelli che apre i dossier e se li studia punto per punto, analizza ogni virgola che i suoi collaboratori possano scrivere nelle varie relazioni. Parte dall’esperienza di governo (sia come ministro nei governi dell’Ulivo sia in quello da lui presieduto) e traccia una strada da seguire per l’Europa e per il popolo europeo: ecco dalle parole di Letta traspare tutto il grande amore per l’ideale europeo. Non conosco personalmente l’ex vice segretario del PD ma sono ragionevolmente certo che il fatto di aver studiato in Francia sin da bambino, di aver vissuto a Bruxelles da giovane, di parlare correntemente le maggiori lingue europee, lo abbiano da un lato facilitato nel capire cosa fosse il disegno di Spinelli e Schumann, dall’altro è sempre più stimolato a lavorare, studiare e incoraggiare i governi nazionali verso una costruzione sempre maggiore della comune casa dei popoli europei.

È un libro che non fa sconti a se stesso: riconosce i propri limiti, capisce che probabilmente questo non è il tempo dell’educazione, di una politica ragionata e meditata bensì di una gridata, fatta di slogan e necessariamente immediata. Ma il riconoscimento dei propri limiti e il non aver capito che dopo la vittoria politica su Berlusconi (quando, lo ricorderete, lo condannò con la sua fermezza all’irrilevanza prima della resurrezione compiuta col Patto del Nazareno) serviva un cambio di passo del governo e lui non fu in grado di proporlo (lo ammette proprio, che il suo Impegno Italia arrivò troppo tardi!), diventano l’occasione per rivendicare la sua diversità e la sua non disponibilità a cambiare questo aspetto del suo carattere, a diventare qualcosa che non è. Rivendica con orgoglio il suo senso delle Istituzioni, peraltro merce rara in un’era nella quale vice presidenti delle assemblee parlamentari inneggiano duelli sguaiati con i propri follower o leader di partito speculano sulle tragedie.

Affronta con la serietà che tutti gli dovremmo riconoscere, se non fossimo impegnati al gioco di Twitter, il grave problema dell’immigrazione e rivendica – comprensibilmente – il successo dell’operazione Mare Nostrum: operazione che non era stata concepita come attività di polizia internazionale, bensì umanitaria e per tale ragione Letta mostra a ragione un forte orgoglio.

Racconta ricordi del suo passato da ministro, ancora prima di allievo di Andreatta, dell’attività politica sempre immersa nella costruzione dell’Europa. Esamina i gravi errori che a Bruxelles e nei governi nazionali si stanno commettendo, rischiando di compromettere l’integrazione politica continentale, condannando il Vecchio Continente, e i paesi più deboli finanziariamente come il nostro, all’irrilevanza. Tira – molto educatamente – le orecchie a coloro che usano la demagogia per affrontare le grandi questioni europee, a cominciare dall’indiscutibile leadership tedesca, conquistata nonostante oltre dieci anni fa il colosso europeo fosse sull’orlo di una forte crisi. Letta è seriamente orgoglioso dell’appartenenza dell’Italia e dell’Europa alle democrazie occidentali, raccontando un significativo episodio occorsogli a Pechino, quando un anchorman cinese gli chiese se questa democrazia che abbiamo noi qui, in Occidente, fosse ormai “troppo“, come se non potessimo più permettercela e che la via di un capitalismo guidato da un unico partito, da una sorta di dittatura capitalistica come quella della Repubblica Popolare Cinese, fosse l’unica percorribile in un’era nella quale le decisioni fanno a botte le mediazioni.

L’ex premier rivendica con coraggio e forza la nostra diversità e l’enorme tasso di libertà che i paesi occidentali possiedono, in rapporto soprattutto ai paesi emergenti: ma avverte anche il grave e pericoloso rischio che corriamo noi, quello cioè che la confusione, la scelta della via “semplice”, la strada all’apparenza più corta e sbrigativa per ottenere tutto e subito, rischi di vanificare tutto il percorso sinora compiuto e che ha posto l’Occidente, e soprattutto l’Europa, dopo il secondo conflitto mondiale, all’avanguardia nella salvaguardia dei diritti dell’uomo e della libertà.

È un libro che scorre via con molta rapidità: non è uno di quei saggi socio-economici che ti fanno annoiare alla terza pagina e lo leggi a spizzichi e bocconi. Lo si legge facilmente, hai l’impressione di chiacchierare con l’autore davanti a un aperitivo, dibattendo, discutendo e confrontandosi. Leggendo questo testo non si risponde alla domanda che molti giornalisti continuano a porre a Letta: «La scelta di andare a Parigi è definitiva o meno? Si candida in futuro o meno?». Non lo scrive, l’autore: e forse ho la sensazione che nemmeno lui lo sappia ancora. Tuttavia ho come avuto l’impressione che Enrico Letta conosca perfettamente quali possano essere i limiti del proprio carattere in una competizione elettorale. Ma non per questo rinuncia a un ruolo pubblico, di colui che sente che ha qualcosa da dire sulla scorta della propria indiscutibile esperienza, molto più alta di improbabili personaggi che attualmente dirigono dicasteri persino di peso. «Si fa politica in mille modi, non soltanto candidandosi» – sembra dire e credo abbia ragione: già le ricette di questo libro e le sue ormai frequenti interviste ne costituiscono una dimostrazione. In un’era mediatica dominata in questo momento soltanto da una sola narrazione, con i giornali impegnati più nella rincorsa alla lepre Renzi (che detta quasi l’agenda delle news e i titoli dei giornali),  Enrico Letta propone un diverso modo di procedere, una visione diversa della vita politica, fatta di ragionamento, mediazione e studio. Forse nell’immediato non sortirà effetto: continuerà a essere beffeggiato nella politica spicciola dei tweet (quanta tristezza ogni volta che lo si vede ospite in TV e contemporaneamente si leggono i commenti sui social!), ma alla fine – probabilmente – qualche soddisfazione da Parigi se la toglierà, se finalmente – come a volte sembra capitare – a Bruxelles i consigli di questo secchione di nemmeno cinquanta anni sembra siano ascoltati.

E se avessi venti anni in meno, e coltivassi ugualmente la passione per la politica, non esiterei un minuto a iscrivermi alla Scuola di Politiche che l’ex Presidente del Consiglio dei Ministri ha deciso di realizzare. Per una semplice ragione: è sempre meglio apprendere direttamente da chi ti ha preceduto che pensare di far tutto da te, richiudendo l’esperienza dei predecessori nell’armadio dei ricordi. Per il cambiamento non è necessario essere giovani: persino il Papa, che giovane proprio non è, sta profondamente modificando gli equilibri dentro un’istituzione millenaria come la Chiesa. Credo sia più una questione di “ricette” e di “soluzioni” piuttosto che un problema di anagrafe.

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