Englishman on a sofa
È emozionata Bridget Phillipson: la sua è la prima constituency a essere proclamata. Sale la scaletta del palco insieme ai suoi rivali, tutti con una bella coccarda al petto. Lei indossa quella rossa, il colore del Labour, il partito di centrosinistra. Pochi istanti di formalità, la lettura dei risultati e i supporter di Bridget possono urlare di gioia. La trentunenne del nord dell’Inghilterra si è confermata deputata del collegio di Houghton and Sunderland South, dopo la vittoria di cinque anni prima a soli ventisei anni. I suoi avversari si congratulano: non ha soltanto confermato il seggio ma ha anche aumentato i consensi, in un collegio di circa ottantamila elettori, nel quale hanno partecipato poco più della metà.
È questa la prima immagine che mi piace fissare in mente nella mia notte elettorale dal divano di casa mia a Roma: assoluta novità per noi italiani che aspettiamo invece le prime dichiarazioni dei leader nazionali, oracoli della linea politica che un partito deve tenere. Bridget nel suo breve discorso di ringraziamento, oltre a salutare e a congratularsi con i suoi avversari, si impegna a portare avanti le istanza del territorio: sa bene, infatti, che ne va della sua conferma, fra cinque anni o meno se la legislatura dovesse terminare anticipatamente.
Dopo l’ubriacatura dei sondaggi, con il testa a testa annunciato, erano arrivati gli exit poll e si cominciava a proliferare un governo di coalizione molto debole, a meno che i due partiti storicamente rivali si mettessero d’accordo per una grande coalizione alla tedesca. La CNN – molto antipatica – sul suo sito aveva parlato di situazione all’italiana, deridendoci ma sbagliando di grosso: semmai la situazione era più vicina a quella tedesca, visto che da noi un terzo del Parlamento era in mano a una forza antisistema con la quale sarebbe stato impossibile varare alcun governo. Ma quel seggio di Bridget, mentre serviva da consolazione a quanti temevano che gli exit poll fossero più veri di quanto fosse lecito scongiurare, era soltanto l’inizio di una lunga maratona che ovviamente non ho compiuto.
La seconda immagine, quando ancora tutti davano il Parlamento hung, bloccato, è quella del collegio di Morley and Outwood: il deputato uscente è Ed Balls, quarantotto anni, uno dei pezzi grossi del Labour. Ministro ombra del Tesoro uscente, è parlamentare da dieci anni e nel passato ha fatto parte degli ultimi due gabinetti laburisti guidati da Tony Blair e Gordon Brown.
Ed sembra molto nervoso: anche lui sale le scale accompagnato dagli altri contendenti del collegio e aspetta diligentemente sul palco che il funzionario elettorale legga i dati. Un boato accompagna il risultato di Ed: ha ottenuto undici voti in più della scorsa tornata elettorale, quando con il 37,6% dei voti era riuscito a spuntarla sul conservatore Calvert, oltre due punti sotto. Ma la gioia dura i pochi istanti che separano i risultati di Ed da quelli della sua rivale principale, Andrea Jenkyns: quarantuno anni, l’esponente dei Tories batte il favorito Balls per soli 442 voti, probabilmente grazie alla crescente astensione.
Ormai è chiaro che i Tories stanno andando a vele spiegate verso la linea magica dei 326 seggi: la maggioranza assoluta del Parlamento e la possibilità di varare un governo da soli, senza Lib-Dem com’era accaduto cinque anni fa. A metà mattina Nick Clegg e Ed Milliband tengono i loro discorsi di commiato, accolti dagli applausi dei loro militanti, delusi certo ma non maleducati.
Parallelamente sulla mia timeline di Twitter, sul mio iPad, scorro i commenti italiani, la “visione” italiana dell’elezione britannica.
Se ieri sera si era partiti con un generico “visto che l’Italicum è migliore perché assicura un vincitore?” a stamattina invece va in onda tutta la provincialità del nostro Paese, dai normali militanti ai politici più noti, passando ovviamente per i commentatori più o meno famosi.
Inutile stare lì a riepilogare perché e per come l’Italicum non è nemmeno lontano parente del Britannicum: per ragioni quanto meno ovvie, matematiche direi. Il Regno Unito è diviso in 650 costituency, i celebri collegi uninominali, e i candidati si sentono veramente rappresentativi di quel territorio: insomma non c’è un Mugello sul quale paracadutare il Di Pietro di turno, contro il Ferrara.
650 collegi significa meno di centomila abitanti ciascuno, quindi circa ottantamila elettori. Se non li conosci uno per uno poco ci manca. Ma non soltanto questa è la differenza, anche se piuttosto ovvia visto che i collegi italiani saranno oltre sei volte più grandi, sono previste le pluricandidatura e i seggi per collegi non scattano tutti ma a seconda del riparto nazionale, con le solite formule matematiche che ci vuole una laurea specializzata per riuscirne a venire a capo!
La differenza – che indica tutti la superficialità e provincialità italiana – la riassume perfettamente Barbara Serra, anchorwoman di Al Jazeera, in questo post sulla sua pagina Facebook:
Lezioni di democrazia dal Regno Unito: 1) Se il partito va peggio delle aspettative, il leader si dimette. Subito. 2)...Posted by Barbara Serra on Venerdì 8 maggio 2015
Vi confesso che come Sting cantava Englishman in NY, stanotte e stamattina mi son sentito anche io “an alien, a legal alien”: e non soltanto perché anche a me, come all’ex cantante dei Police, piacciono i toast “done on one side”, ma perché comprendi quanto sia ancora lontana la strada verso la normalità. D’altronde bastava ascoltare i commenti nei vari TG britannici, BBC, SKYNEWS, AL JAZEERA, CNN (il mio telecomando s’è sguagliato!) per comprendere quale sia la differenza fra chi elegge i propri rappresentanti e chi invece va alla ricerca della mano fatata, della bacchetta magica. Si comprende, assistendo al più grande spettacolo della democrazia parlamentare quali sono le elezioni britanniche, cosa voglia dire Enrico Letta nel suo libro quando dice che “governare non è comandare”. Noi andiamo a votare sperando di trovare un condottiero, un comandante, qualcuno che ci dica – con le leggi che farà – cosa dobbiamo fare e come dobbiamo farlo. D’altronde come diceva il Duce “governare gli italiani è inutile”: è vero, perché noi preferiamo essere comandati, avere qualcuno sul quale additare la colpa e non invece fargli assumere la responsabilità del governo, dal piccolo territorio che rappresenta al Governo Nazionale se incaricato di farne parte. D’altronde con la seconda scelta, anche l’elettore sarebbe chiamato alla responsabilità: anche lui, cinque anni dopo, dovrebbe avere l’umiltà di dire “ho sbagliato a votarti, caro deputato”.
Ecco, ieri sera mi sono sentito come Sting, non a NY ma sul mio sofa.