Guadagnato sul campo
E se nel corso del primo mandato s’è attirato molte ironie e persino qualche ingeneroso insulto, specialmente dalla sinistra radicale occidentale che come al solito manifesta consueti rigurgiti antiamericani, spesso con un’antistorica nostalgia per il socialismo reale sovietico, senza più l’incubo della rielezione e potendosene abbondantemente fregare dei sondaggi e della popolarità, questo affascinante avvocato nato alle Hawaii sta aggiungendo un paragrafo fondamentale al capitolo della storia contemporanea che lo riguarda. Primo afro-americano eletto alla Casa Bianca, ad appena 47 anni, poco più anziano di due suoi amatissimi predecessori come Jack Kennedy e Bill Clinton, Obama negli ultimi anni ha messo a segno due incredibili colpi per chiudere definitivamente il lunghissimo secolo di sangue e guerre che è stato il Novecento.
L’ha fatto prima ai funerali di Nelson Mandela, uomo di enorme ispirazione per sé e per la causa delle persone “di colore” in tutto il mondo, quando in mondovisione si avvicinò a Raúl Castro, gli strinse la mano e davanti al mondo riunito per salutare il grandissimo politico sudafricano cominciò il lento disgelo dei rapporti fra la minuscola isola caraibica e la grande potenza mondiale americana. Nel frattempo era bastata una sola telefonata al nuovo e moderato presidente iraniano, Rouhani, per avviare un altro scongelamento, quello forse più significativo vista la totale assenza di rapporti dal 1979 e la grave crisi degli ostaggi che costò la rielezione a un brav’uomo come Jimmy Carter.
Dopo qualche tempo, nel giro di pochi mesi, gli Stati Uniti si sono seduti al tavolo delle trattative con l’Iran e con Cuba e oggi – a Panama – pur non essendo previsto un bilaterale fra i due presidenti, Castro e Obama probabilmente si scambieranno qualche considerazione sul lento ma ormai inesorabile processo di avvicinamento fra i due duellanti, mentre Rouhani incassa a Teheran un sostanziale via libera da parte di Khamenei, l’ayotollah che ha preso il posto di Khomeini come Guida Suprema dello Stato Islamico dell’Iran, sul negoziato che le autorità iraniane hanno intrapreso con la Russia, la Cina e l’Occidente relativamente al nucleare.
Accanto al presidente americano, uno degli artefici principali di questa nuova politica estera è stato John Kerry: ereditato il Dipartimento di Stato dalla grande rivale di Obama alle primarie 2008, Hillary Clinton, il nuovo inquilino di Foggy Bottom s’è rivelato un ottimo capo della diplomazia e in un certo senso ha riscattato la cocente delusione del 2004 quando perdette le elezioni presidenziali contro Bush jr., forte – questi – delle due guerre post 11 settembre che da anonimo politico l’avevano incoronato condottiero per un’America che voleva vendicare l’onta degli attacchi sul proprio suolo.
E mentre domenica ci accingiamo a inaugurare un’altra corsa presidenziale dell’ex First Lady, stavolta senza troppi rivali in grado di contenderle efficacemente la nomination democratica alla convention di Filadelfia del prossimo anno e lanciando una forte suggestione per una specie di staffetta fra il primo afro-americano e la prima donna presidente, non resta forse che ringraziare Obama per questi due focolai spenti, ben consci del fatto che tanta altra strada verso un mondo più sicuro e più in pace poteva essere fatta. Sia all’interno della grande nazione-continente statunitense, dove ancora rimangono tanti, troppi, stati a prevedere la pena di morte nell’ordinamento giuridico e il diritto di armarsi (sancito dalla Costituzione federale, peraltro), sia nel mondo assai vicino alle nostre coste, cosa che nemmeno ce ne rendiamo conto troppo spesso. Avrebbe potuto e voluto probabilmente fare molto altro, Obama, se non avesse dovuto spendere quasi l’intero primo mandato a raddrizzare la barca di un’economia precipitata nella crisi economico-finanziaria più devastante dal 1929 e forse soltanto la cattura di Osama Bin Laden, nemico pubblico numero uno, ormai quattro anni fa, riuscì a far pendere nel novembre 2012 la bilancia dalla parte del presidente uscente. Ma tempo non ce n’è più e Obama lo sapeva bene nel gennaio di due anni fa quando si affacciò per l’ultima volta per vedere la grande spianata del Campidoglio di Washington riempita dalla sua gente, accorsa nella Capitale Federale per festeggiare la nuova inaugurazione e ballare altri quattro anni con il suo cavaliere nero.
Le orecchie a sventola più famose del pianeta fra venti mesi saranno un ricordo: ci saranno conferenze da tenere, esami delle figlie da soffrire, lacrime delle due ragazze – entrate bambine alla Casa Bianca – da asciugare. Ma non ci sarà più per lui alcun incarico pubblico, soltanto la riconoscenza della sua nazione di averla servita al meglio delle sue capacità. E forse – visti i risultati in politica economica ed estera – un po’ di quella riconoscenza dovremmo anche rivolgerla noi, occidentali ed europei: se non ci fosse stato il martellante stimolo del Tesoro americano e della Fed, forse la nostra Europa starebbe ancora peggio, succube degli incubi dei tedeschi, ossessionati da austerità e inflazione, prima che la BCE guidata da Mario Draghi si decidesse a utilizzare il famoso bazooka.
Ma l’eredità più grande che Obama ci lascerà, e i negoziati con Cuba e Iran ne sono testimonianza, riguarda soprattutto la concezione di un mondo multilaterale, inclusivo, dove le minoranze sono rispettate e dove si cerca instancabilmente il compromesso con la controparte. Una grande lezione anche per i nostri politici che spesso parlano di politica estera, di immigrazione e di Medio Oriente senza avere nemmeno i barlumi geografici delle questioni. A una destra mondiale sempre propensa a voler mostrare i muscoli, Obama ha risposto con il cervello, mettendo l’intelligenza al posto della prepotenza e ottenendo molto di più di quanto si sarebbe potuto ottenere con la strategia della tensione che molti dei suoi predecessori adoperavano nei confronti dei governi de l’Avana e di Teheran.
Obama lascerà di fatto la Casa Bianca a partire dal prossimo gennaio, quando con il caucus dell’Iowa comincerà il ballo delle elezioni presidenziali, il grande show della democrazia americana che probabilmente costerà una barca di soldi (nella campagna 2012 si superò il miliardo di dollari, si pensa che nel 2016 tale somma verrà superata). Sette anni fa ho avuto la fortuna di poter assaporare un po’ delle primarie direttamente sul suolo americano, visitando la Pennsylvania, il Distretto di Columbia e New York. Purtroppo non credo sia possibile immaginare un viaggio negli Stati Uniti nel 2016 e quindi dovrò consolarmi guardando dibattiti in TV e leggendo editoriali e commenti sui giornali e sui siti americani. Salvo imprevisti, sempre possibili quando si parla di Casa Bianca, il presidente uscente sarà presente durante la campagna ma per lui la partecipazione diretta al gioco della politica finisce qui.
Confesso che un po’ di invidia per questo sistema, che oltre duecento anni fa codificò tutto, persino la linea di successione, per dare continuità al Governo (di tutti) a prescindere dai presidenti (necessariamente di parte), un po’ la provo. Specialmente quando osservo l’obbrobrio istituzionale che stiamo partorendo nel nostro Paese, mescolando sistemi, pesi, contrappesi e leggi elettorali che rischieranno di produrre una maionese impazzita: laggiù, quest’ultima, la preferiscono sui sandwich e non nelle istituzioni. E francamente credo sia meglio dentro un hamburger che nella Costituzione e nelle Leggi del nostro Paese.