Quindici anni di solitudine
Quando nel 1991 venne a mancare mia mamma, Giuseppe fu tra i pochi che avevano accesso pressoché illimitato alle mie emozioni: quante lacrime e quanta rabbia raccolse seduti su un muretto vicino la nostra vecchia scuola o affacciati alla balconata della villa di Acireale, dalla quale potevamo respirare l’odore del nostro mare. È stato tra i pochi a comprendere i miei tumulti intellettuali, la mia irrequietezza e la mia inquietudine di studente universitario dubbioso delle proprie scelte.
Eravamo entrambi iscritti alla Facoltà di Ingegneria, sebbene lui facesse quella “seria” – mi sfotteva – avendo a che fare con la bestia di Scienza della Costruzioni che a noi elettronici ci era stata – per fortuna – risparmiata dalla riforma degli ordinamenti. In compenso – gli ricordavo – noi dobbiamo studiare e spiegare onde e circuiti che poi voi userete quando progettate le vostre assurdità architettoniche!
Mi conosceva molto bene, Giuseppe, e io conoscevo lui. Sapeva che quegli studi fossero stati intrapresi più per esigenze di mercato che per intima passione. Non temo di sbagliare se affermo che non mi avrebbe mai fatto mancare il suo sostegno quando – cinque anni fa – provai l’avventura del ritorno catanese e quando prima ancora decisi di buttarmi a capofitto nel mondo della fotografia, di internet e dei nuovi media.
Una mattina di gennaio, dopo i bagordi per festeggiare il nuovo millennio a Roma, mi arrivò una telefonata da un suo amico che conoscevo anche io: non riuscivo a credergli, tanto che fui persino volgare al telefono per la rabbia che stavo provando. Chiamai la segreteria dell’azienda per la quale lavoravo, mi feci acquistare un biglietto open per Catania e tornai di corsa a casa. Lo vidi composto in una bara: indossava un bellissimo abito scuro, lui che la cravatta la metteva soltanto in occasioni assai speciali! Piangemmo molto quella sera, cercando di consolare – invano – una compagna che non aveva nemmeno fatto in tempo ad assaporare cosa fosse vivere insieme al proprio uomo, costruendo con lui una famiglia.
Amava molto New York e il World Trade Center: aveva cercato di spiegarmi – senza che io l’avessi mai capito – la particolarità di quelle due torri che lo attiravano tantissimo e che avrebbe voluto visitare non appena le condizioni economiche glielo avessero consentito. Purtroppo non le poté vedere perché se ne andò via molto prima che Osama Bin Laden stabilisse che andavano buttate giù. Adesso al posto delle Twin Towers c’è la Torre della Libertà, dimostrazione ai fanatici di tutto il mondo che quando l’America (e in particolare New York) cade poi si rialza, persino più di prima. Sono certo che sarebbe rimasto affascinato anche da questo complicato progetto del nuovo WTC: magari salirò sulla Freedom Tower al posto suo, scatterò le foto che avrebbe voluto fare lui e scriverò un pezzo da lì, da Manhattan, come probabilmente avremmo fatto insieme mentre mi avrebbe spiegato la magia dell’architettura del XX secolo e io avrei fatto finta di capirci qualcosa soltanto per evitare i soliti sfottò fra ingegneri!
È passato moltissimo tempo da quando non c’è più e stamattina – passando per Piazza Istria nel quartiere Trieste di Roma – mi è capitato di pensare a lui, proprio il giorno del suo 45° compleanno. Sono strane coincidenze a volte, o forse è l’inconscio che porta a galla ricordi, emozioni e pensieri di una vita fa, proprio in un periodo nel quale la nostalgia e la mancanza della propria terra sono molto pressanti e mentre ti accingi a portare avanti progetti lavorativi che inevitabilmente stimoleranno la memoria, il tuo passato, la tua vita.