La Costituzione vaporizzata
Poi arrivò il referendum elettorale e gli italiani – ebbri di gioia per la possibilità di scegliere i propri amministratori con le elezioni dirette dei sindaci – sancirono che il sistema maggioritario era il più idoneo anche per l’elezione dei parlamentari. Mentre al governo Oscar Luigi Scalfaro chiamava il Governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi per salvare il Paese dal solito baratro nel quale stava precipitando, dopo l’aggravarsi della crisi monetaria che aveva costretto Amato – predecessore di Ciampi – al prelievo forzoso sui conti correnti e all’uscita dal Sistema Monetario Europeo, anticamera della moneta unica, il Parlamento lavorava su una legge elettorale sostanzialmente maggioritaria che prese il nome di Mattarellum da Sergio Mattarella, esponente della sinistra DC siciliana e fratello di Piersanti, assassinato da Cosa Nostra.
L’entusiasmo per il nuovo sistema elettorale, con i collegi uninominali e quindi con un controllo diretto dei cittadini su seicento circa parlamentari (il resto veniva eletto – paracadutato – su base proporzionale alla Camera con una lista bloccata e al Senato con il meccanismo dei resti, travolse il mondo dell’informazione che prontamente coniò il termine Seconda Repubblica, come se fossimo in Francia dove invece le “repubbliche” cambiavano innanzi tutto perché mutava la Costituzione, non il sistema elettorale per il Parlamento.
La prima legislatura della nuova Repubblica, nel 1994, vide la vittoria di Silvio Berlusconi che formò il suo primo governo con una coalizione di centrodestra e con qualche voto racimolato al Senato. Il primo fautore del sistema maggioritario, Mario Segni, anziché favorire un serio bipolarismo schierandosi da una o dall’altra parte, si alleò con il Partito Popolare Italiano guidato da Mino Martinazzoli, sperando di poter costituire l’ago della bilancia nella formazione della maggioranza parlamentare. La miopia di quella classe dirigente democristiana fu evidente quando non si accorse di due cose. Per prima cosa che Silvio Berlusconi aveva tutte le capacità, personali, economiche e seduttive, per non fare alleanze ma prendersi il consenso necessario per varare il governo: inglobò infatti Giulio Tremonti (eletto col centro) nel governo, convinse un paio di altri senatori a votargli la fiducia, contò sull’appoggio istituzionale dei senatori a vita (l’Avvocato in primis). Inoltre la sera del 28 marzo 1994 Achille Occhetto – riconoscendo la sconfitta – disse che Silvio Berlusconi aveva il diritto e il dovere di governare il Paese. Lo stesso Occhetto – non quindi Martinazzoli o Segni – aveva partecipato al Faccia a Faccia pre-elettorale con il Cavaliere in diretta televisiva su Canale 5, in un incontro moderato da Enrico Mentana.
Era ormai nato anche in Italia il bipolarismo con due coalizioni che si sfidavano alle urne e un gruppo di candidati che si riconosceva in una leadership che sarebbe stata eventualmente indicata come Presidente del Consiglio incaricato.
Nessuno si accorse però che la Costituzione italiana non era stata modificata, così come i regolamenti parlamentari nati e concepiti per una repubblica parlamentare con un governo collegiale.
Gli italiani si illudevano di votare l’Esecutivo e per un po’ sembrò andare tutto bene. Le rogne arrivarono con la legislatura successiva: Romano Prodi, che aveva guidato la coalizione dell’Ulivo con un accordo di desistenza con il Partito della Rifondazione Comunista, viene sfiduciato da quest’ultimo su una battaglia epocale – per quei tempi – sulle 35 ore settimanali per i lavoratori dipendenti del settore privato. Il partito guidato da Bertinotti si spacca e si forma il Partito dei Comunisti Italiani (governativi); una parte del Centro Cristiano Democratico guidato da Casini e Mastella si coagula attorno al Presidente Cossiga (sempre lui!) e forma l’UDR (Unione della Repubblica), sul modello dell’omologo francese: vience chiesto al segretario del partito di maggioranza relativa, Massimo D’Alema, di assumere la guida del governo (analogamente a quanto sarebbe accaduto sedici anni dopo con la staffetta Letta-Renzi).
Nel frattempo Berlusconi e il Polo chiedono le elezioni anticipate, una parte consistente del centrosinistra, i cosiddetti prodiani, si associano chiedendo al Capo dello Stato di applicare la Costituzione Materiale, che ormai prevedeva il coinvolgimento attivo del corpo elettorale. Scalfaro, integerrimo presidente, non si lascia abbindolare e pretende di capire se c’è la maggioranza parlamentare per un nuovo governo dato che la Costituzione – quella che vedete in alto appena firmata da Enrico De Nicola – non prevede altro!
Ma ormai, per la nostra Costituzione, la legge della pallina sul piano inclinato, non le lasciava scampo: D’Alema governò circa due anni, spesso senza maggioranza in politica estera perché il partito guidato da Cossutta aveva ancora una pregiudiziale anti-Nato e anti-USA molto spiccata, per cui il leader maximo rischiò di cadere quando l’Alleanza Atlantica intervenne in Kosovo. Si dimise invece dopo aver politicizzato oltre misura una campagna elettorale amministrativa, le elezioni regionali del 2000, cercando quel bagno elettorale e quella legittimazione politica che l’opinione pubblica gli rimproverava, gioco che nel 2014 a Matteo Renzi è invece riuscito. Gli successe Amato mentre nel frattempo Prodi era stato nominato Presidente della Commissione Europea e i suoi avevano rialzato la testa costruendo i Democratici, ennesimo partito attorno al quale creare il polo di centrosinistra, e Cossiga si era ritirato dalla maggioranza, lasciando Mastella e il suo novello UDEUR alleato dell’Ulivo. Quando arrivò il 13 maggio del 2001, giorno della Madonna di Fatima e ventesimo anniversario dell’attentato al Papa, tutti sapevamo che Silvio Berlusconi avrebbe stravinto le elezioni: aveva ricucito con Umberto Bossi che cinque anni prima – presentandosi da solo – aveva indebolito il Polo della Libertà, una cosa che Massimo D’Alema aveva provato a spiegare al centrosinistra guidato da Prodi, nel castello di Gargonza, ma che evidentemente non era stato compreso a pieno dallo stesso Professore e da Veltroni, all’epoca vice premier e Ministro dei Beni Culturali. Nel 2001 il Cavaliere trionfa sul duo Rutelli-Fassino, la leadership più debole che la sinistra poteva concepire per scontrarsi contro Berlusconi, con un incredibile cappotto 61-0 in Sicilia.
Sul finire della difficile legislatura, Silvio Berlusconi chiese una nuova legge elettorale e Roberto Calderoli confezionò un capolavoro, il Porcellum: l’obiettivo era di impedire che vincesse Romano Prodi: terminato il mandato europeo, il Professore era tornato sulla scena politica nazionale portando nel sistema un’innovazione enorme: le primarie. Sul modello della scelta del candidato alla Casa Bianca, l’Unione – questo il nome della coalizione che andava da Bertinotti a Mastella e che però tanto unita certo non era né poteva essere vista l’eterogeneità del cartello elettorale – portò ai gazebo oltre quattro milioni di elettori di centro sinistra: l’entusiasmo per questa nuova partecipazione popolare, unita al sistema dei collegi uninominali – dove la presenza di strutture territoriali organizzate è fondamentale per vincere le elezioni – terrorizzò il Cavaliere che ottenne una legge che otto anni dopo verrà dichiarata incostituzionale e che consegnò alle segreterie e ai capi-partito il potere (di fatto) di nomina dei parlamentari. Berlusconi riuscì quasi nel suo intento: polarizzò la campagna elettorale nello scontro con il candidato premier avverso, invase con la propria potenza mediatica ogni spazio, e arrivò a un soffio dal premio di maggioranza alla Camera.
Romano Prodi governerà infatti soltanto due anni.
Nel frattempo la Costituzione formale, quella sulla quale a turno giurano tutti, era stata calpestata: la selezione delle primarie è diventata ormai una sorta di lavacro per ogni carica elettiva, persino per la nomina del segretario di un partito nuovo come il PD. Gli elettori però non hanno potere di scegliere i propri rappresentanti, potendo votare soltanto la lista bloccata dalla segreterie dei partiti.
Ma per la povera Carta evidentemente questi strappi non erano ancora sufficienti.
Mentre Silvio Berlusconi governava di nuovo, la più grande crisi economico-finanziaria dal 1929 si presentava sul pianeta con una violenza inaudita: caduto Berlusconi, viene varato un governo tutto tecnico, molto più vicino al dettato costituzionale della separazione dei poteri di quanto nel passato non si fosse fatto. Peccato che nel frattempo la consuetudine della decretazione d’urgenza e della delegazione legislativa fosse diventata una prassi ormai inquietante. Con un Parlamento di nominati – d’altronde – e il potere delle segreterie dei partiti, del Governo e delle poche élite che guidavano il Paese, va a farsi benedire il legittimo controllo democratico che dovrebbe essere compiuto sugli atti dell’Esecutivo.
La Costituzione formale, quella cioè che dovrebbe valere sempre, verrà rispettata soltanto dal Capo dello Stato nella formazione del Governo e dalla Consulta che di mestiere fa quello: per il resto quella materiale aveva e ha veramente preso il sopravvento, aumentando a dismisura il potere dell’Esecutivo e rendendo il Potere Legislativo sempre più succube del primo, grazie a continue richieste di voto di fiducia (che troncano il dibattito parlamentare) e a Ordini del Giorno e a Mozioni che dovrebbero impegnare il Governo ma che non trovano mai seguito nell’esecuzione delle leggi.
E arriviamo finalmente ai giorni nostri: dopo le elezioni del 2013 la Costituzione viene prima richiamata e poi stracciata dal nuovo movimento di cittadini giunto nel Sacro Palazzo. Mentre si preferisce umiliare il bonario leader del partito di maggioranza relativa in diretta streaming si propone una prorogatio del Governo Monti uscente: nel perorare il giusto rispetto del Parlamento e del Potere Legislativo si chiede che questo sia prevalente su quello Esecutivo!
Alla fine del 2013, mentre il Partito Democratico elegge il suo nuovo leader, Matteo Renzi, che giura e spergiura di non voler mai andare a Palazzo Chigi senza un voto popolare, perché lui mica è come il vecchio (D’Alema vi arrivò così, come abbiamo spiegato prima), la Corte Costituzionale sancisce che la legge Calderoli è incostituzionale sia riguardo le liste bloccate sia per il super premio di maggioranza. Abbiamo il paradosso di avere un Parlamento legittimamente costituito e nella pienezza dei poteri, ma politicamente delegittimato proprio in forza della sentenza della Consulta. Tutti sembrano concordare che mettere mano alla Costituzione su questo scenario sia quanto meno inopportuno! I grillini vorrebbero il Mattarellum, la legge elettorale precedente, i partiti che supportano il Governo Letta vogliono l’Italicum, nuovo sistema partorito dopo l’accordo fra Silvio Berlusconi e Matteo Renzi nella sede del PD al Largo del Nazareno.
A febbraio “colpo di scena“!
La convivenza fra Letta e Renzi non è ovviamente più possibile: il secondo assume la guida del nuovo Governo che ha una composizione originale e strizza persino l’occhio a Forza Italia (il ministro Guidi non ha mai nascosto di essere vicina alle posizioni di Berlusconi). È la stagione delle riforme costituzionali, della legge elettorale e del Jobs Act, la riforma del lavoro.
Mentre la Costituzione della Repubblica appare formalmente rispettata con la nomina del giovane leader del PD a Palazzo Chigi, in realtà comincia la vera e propria demolizione di tutti i pilastri fondamentali della Carta. Dopo la straordinaria vittoria elettorale alle europee, voto che non avrebbe dovuto avere conseguenze politiche (così dicevano Renzi e il suo inner circle prima del trionfo), grazie a una campagna mediatica totalmente a lui favorevole passa la vulgata che la direzione del PD e il Governo del Paese possano imporre al Parlamento qualunque decisione. Vengono rimossi due membri dalla I Commissione Affari Costituzionali del Senato perché non in linea con i loro partiti (Mineo e Mauro), sebbene lì rappresentino i gruppi parlamentari ma non i partiti, almeno nel caso di Mineo.
Avviene quindi uno scontro fra due rappresentatività: quale conta di più quella delle primarie o quella delle elezioni politiche? E queste ultime non sono forse avvenute con lista bloccata (come l’Assemblea Nazionale del PD, peraltro) giudicata incostituzionale? E Mineo non fu messo capolista da Bersani ma senza le primarie per i parlamentari (peraltro la stampa nazionale si guarda bene dal ricordare che proprio in quelle primarie di capodanno furono esentati molti esponenti renziani proprio per assicurare all’allora sindaco di Firenze un’adeguata compagine parlamentare su cui contare)?
Di fronte a quegli eventi la Costituzione cominciava piano a piano a svanire, rendendo sempre più forte la contraddizione fra la legittima linea politica venuta fuori dalle primarie del Partito Democratico e l’altrettanto legittima autonomia del singolo parlamentare.
Ma è con il Jobs Act che la Carta Fondamentale evapora completamente.
Non soltanto viene presentato un progetto di legge delega che affida all’Esecutivo potestà legislativa su una materia così delicata e così costituzionalmente rilevante (l’articolo 1 afferma che la Repubblica è “fondata sul lavoro“); non soltanto molte parti della legge delega sono volutamente vaghe tanto fa far tuonare l’opposizione e pezzi della maggioranza che affermano di “delega in bianco“: si arriva persino all’assurdo che si chieda il voto di fiducia su una delega vaga, quasi una professione di fede sul Governo e sul suo operato.
La Costituzione di una repubblica parlamentare, quale ancora l’Italia formalmente è, appare come vaporizzata: la direzione del PD vincola il voto dei parlamentari che sarebbero liberi ma che in realtà non lo sono proprio perché non hanno un territorio di riferimento (collegio) o degli elettori “propri“, a parte le poche migliaia di preferenze ottenute alle primarie del 2012. Il governo impone al Parlamento provvedimenti facendo ricorso a voti di fiducia sulle leggi di conversione dei decreti-legge sia sulle leggi delega: addirittura il ricorso alla questione di fiducia per il Governo Renzi è il più alto di tutti i governi che lo hanno immediatamente preceduto.
Sì, ha ragione Lucia Annunziata l’Italia ieri notte ha veramente cambiato pagina: purtroppo però la Costituzione è rimasta la stessa, ormai ridotta a orpello nello Studio alla Vetrata del Presidente della Repubblica.
Forse sarebbe ora di cambiare anche la forma di governo: a questo punto meglio la repubblica presidenziale e i collegi uninominali (a turno singolo o doppio poco importa), separazione netta dei poteri, cambio totale dei pesi e contrappesi, controllo diretto sul collegio da parte del popolo sovrano.
Ha ragione Renzi a rivendicare il diritto-dovere di governare: ma anche il Parlamento ha il diritto e il dovere di legiferare senza subire costantemente il ricatto dell’esecutivo. Se è vero che il mondo di oggi richiede decisioni rapide, che soltanto esecutivi forti possono dare, è altrettanto vero che la democrazia è un bene troppo importante per consentire a chicchessia di giocarci e che il controllo del potere esecutivo è importante tanto quanto la libertà d’azione di quest’ultimo.
Forse sarebbe meglio andare a votare in primavera con la legge elettorale attuale (sostanzialmente proporzionale con sbarramento) e disegnare una nuova Carta Fondamentale perché quella che formalmente abbiamo adesso – a parole adorata quasi come una divinità laica – non la rispetta più nessuno, nemmeno coloro sulla quale hanno formalmente giurato.
p.s. nel Regno Unito, dove il Primo Ministro ha poteri molto ampi, lo scorso anno il Parlamento, dove la coalizione Cameron-Clegg ha la maggioranza, ha detto di no al Governo su un eventuale intervento in Siria. Nessuno – a Downing Street – si è sognato di imporre a Westminster la linea. Ma si sa, gli inglesi che ne capiscono di Costituzione visto che nemmeno ne hanno una e ancora si basano su usi e consuetudini derivanti dalla Magna Charta!