Figli del Biscione
Ultimamente osservo con molta perplessità, e anche molta tristezza sinceramente, le polemiche interne al Partito Democratico, ed in particolare l’ondata di tweet, post, dichiarazioni, agenzie e interviste che i maggiori esponenti del nuovo corso del PD – quasi tutti giovanissimi – sta in questi giorni montando, sempre più in aperta polemica con la cosiddetta minoranza PD, sulla questione dell’articolo 18.
Mi ha colpito in particolare l’ex responsabile della comunicazione della prima segreteria di Renzi, Francesco Nicodemo (classe 1978) che – in polemica con un’attivista della minoranza PD – twittava “io cocopro mai visto, così come milioni di precari. Ma di cosa parli?“. Allo stesso modo, il ministro Madia (nata invece due anni dopo nel 1980) ha esposto la condizione dei suoi coetanei che lavorano tutti con contratti atipici e quindi senza la famosa copertura dell’articolo 18.
Edoardo Fanucci, deputato renzianissimo di 31 anni (classe 1983), su Omnibus (la 7) continuava a porre l’accento sul fatto che era perfettamente lecito che si dovesse abolire l’articolo 18, tutelando un mondo del lavoro che non c’è più e che comunque non comprendeva la sua generazione.
Tre esponenti giovanissimi, il più vecchio di 36 anni come Nicodemo, tutti più giovani del premier (40 anni a gennaio), tutti portatori di uno scontro ideologico generazionale non fondato sui principi e sugli ideali, come eravamo stati abituati nel passato, dal ’68 agli anni ’80, bensì su questioni squisitamente individuali, egocentriche e monetizzabili.
Non so se i tre esponenti in questione, così come la maggior parte degli under 40 in Italia, abbiano ascoltato e soprattutto compreso il perfetto editoriale di Massimo Giannini, l’ex vice direttore di Repubblica ora conduttore di Ballarò, che ha demolito – e Dio solo sa quanto sia difficile in un’epoca di coro mediatico liberista all’unisono – la tesi per la quale ci sia la fila di investitori alle nostre frontiere se soltanto ci fosse libertà di licenziare persino per motivi discriminatori.
Non so nemmeno se siano riusciti a togliersi di dosso l’arroganza, che spesso hanno per imitazione del loro leader, e siano riusciti a comprendere quella frase molto filosofica di Pierluigi Bersani – ieri ospite da Floris: “l’aspetto simbolico dell’articolo 18 sta nel fatto che il lavoro non è soltanto salario ma anche dignità e diritti“.
Potrei testimoniare ovviamente che conosco tantissimi giovani, di una decina d’anni più giovani di me, che sono assunti a tempo indeterminato da quelle poche aziende che assumono e che evidentemente non sono terrorizzate dal non poterli licenziare senza giusta causa per motivi discriminatori (l’unico caso dove la reintegra non è monetizzabile dal giudice del lavoro). Potrei persino osservare che in realtà dipende anche dal percorso di studi e quindi dal possibile sbocco lavorativo: Nicodemo è laureato in lettere classiche (un percorso forse molto inflazionato) mentre Madia e Fanucci appaiono abbastanza secchioni, almeno stando alle loro biografie ufficiali su internet.
In verità si ha come la sensazione che quasi l’intera generazione dei trentenni non riesca a guardare al di là del proprio naso, che sia come estranea al tema dei diritti, delle comunità, di qualcosa che non sia direttamente collegabile al denaro, alla pecunia.
Così come per un disegno di Leonardo, una scultura di Michelangelo o una tela del Caravaggio si dice che hanno un valore inestimabile allo stesso modo ci sono alcuni diritti, frutto di conquiste anche violente e piene di sangue, che non hanno prezzo, non possono essere – in punta di diritto – monetizzate. È questa la ragione – ben spiegata peraltro anche dalla stessa Fornero, autrice dell’ultima riforma dell’articolo 18 – per la quale il reintegro sul posto di lavoro sia rimasto soltanto per i motivi discriminatori, per i quali non è previsto in alcun modo l’indennizzo possibile invece sia per motivi disciplinari che per motivi economici. Perché la discriminazione, di natura politica, sessuale, religiosa, etnica, non può essere una giusta causa per privare un lavoratore del proprio posto di lavoro, della propria dignità di persona.
La sensazione che si ha – quando i trentenni piddini parlano di Jobs Act spesso ripetendo gli slogan e i tweet di Renzi – è che tutto ciò sia distante, che tutto debba essere monetizzabile e comprabile, che tutto abbia un prezzo. Confondono le tutele crescenti (che le vogliono tutti a parole) e i diritti negati (maternità in primis) – cioè gli ammortizzatori sociali – con la libertà di licenziamento. Questi cultori di House of Cards, la bella serie americana sulla cinica politica di Washington, non hanno forse nemmeno fatto caso che la dottoressa licenziata dalla moglie di Underwood, il cinico capogruppo democratico della Camera dei Rappresentanti, non vuole accettare l’indennizzo offerto dalla bellissima Claire, ma vuole proprio trascinarla in tribunale proprio perché si sente vittima di discriminazione in quanto gestante. Tutto questo in America, nella patria del liberismo economico e del capitalismo selvaggio.
Se in America Warren Buffet ha potuto tranquillamente affermare che il capitale ha vinto la sua guerra sul lavoro grazie alla Reaganomics, forse in Italia è Silvio Berlusconi a poter dire qualcosa di analogo. La profonda trasformazione che la società italiana ha avuto a partire dagli anni ’80 – grazie al successo sempre più crescente delle televisioni commerciali e senza un vero pluralismo televisivo – è sotto gli occhi di tutti: la Milano da bere degli anni di Craxi e Pillitteri è diventata il modello di riferimento, il metro per misurare la qualità della nostra comunità, sposando la tesi che tutto sia comprabile e che ogni cosa – persino le persone – siano in vendita.
Ieri sera su Radio Capital il professor Cacciari – certamente uno non proprio tenero con la vecchia guardia del PD; oggi Ferruccio De Bortoli, il direttore del Corriere della Sera, con un durissimo editoriale: ecco io spero che il Premier cominci un periodo più riflessivo e meno impulsivo, cercando di raddrizzare la barca ed estendendo tutele e diritti anziché privare chi quei diritti li gode non come concessione di un sovrano ma come conseguenze di vere lotte sindacali dei nostri genitori.
È vero che il mondo del lavoro è cambiato, è lapalissiano che l’Italia del 2014 non è quella del 1970: quello che non dovrebbe cambiare è la missione di un leader e di un partito socialdemocratico quale il PD dovrebbe essere, con l’entrata nel PSE: rendere una società più equa e più giusta, lavorando affinché si recuperino coloro che rimangono più indietro.
Che non significa però far andare in retromarcia chi sta davanti.
Foto: Gasperini/Ag.Sestini tratta dal Corriere Fiorentino