Viaggio in Argentina /5 – Un salto nel vicino Cile

 In VIAGGI

La figura geometrica più breve fra due punti, ci hanno spiegato sin dalle scuole elementari, è la linea retta. Purtroppo questa non è sempre la più veloce, specialmente se ti trovi in un paese nel quale – specialmente al sud – ancora molte vie di comunicazione sono rimaste al tempo del Che e dei suoi Diari della Motocicletta.

Piene di tratte ancora sterrate, con quel ripio che può essere anche molto pericoloso, specialmente per le conseguenze di ritrovarti in mezzo al nulla, le strade che ci avrebbero permesso di risalire il corno del Sud America non ci assicuravano affatto una grande tranquillità. Così da El Calafate decidemmo di tornare a Buenos Aires attraverso tre spostamenti: in aereo ci saremmo diretti a San Carlos de Bariloche, nella regione dei laghi della Patagonia, poi in auto fino a Mendoza e da lì infine il rientro nella Capitale argentina.

Solo che la Ruta Nacionál 40, che da Bariloche ci avrebbe portato a Mendoza, non soltanto aveva qualche tratto sterrato ma era piena di curve e ci avrebbe obbligato al doppio dei giorni previsti per quel trasferimento: purtroppo non era possibile. Così decidemmo di arrivare nella stupenda città del vino, Mendoza, passando per il Cile  e approfittando così di conoscere la cultura di quell’altro popolo di lingua spagnola, molto più riservato e meno caciarone dei nostri amici argentini.

Ma per prima cosa bisognava riuscire a partire da El Calafate …

Fedeli alla loro fama di non essere molto affidabili, le Aerolineas Argentinas ci tirarono un altro scherzetto, dopo i bagagli rimasti a Buenos Aires prima della nostra prima tappa patagonica a Puerto Madryn.

Lasciata la nostra baita, infatti, ci dirigemmo all’aeroporto di El Calafate dove il nostro aereo avrebbe dovuto decollare in tarda mattinata alla volta della Patagonia dei laghi. «Pur essendo una tappa di passaggio» – ragionavamo durante la pianificazione del tour – «avremo sicuramente la possibilità di fare una rapida visita a Bariloche, Villa La Angostura o nei boschi dei dintorni». Non avevamo certo fatto i conti con la compagnia aerea che – candidamente – ci informò che il nostro volo sarebbe arrivato e ripartito non prima delle otto della sera!!

Effettuammo il check-in, etichettammo i bagagli e provammo a chiedere all’autonoleggio se potesse lasciarci la vettura almeno fino all’ora di pranzo: purtroppo però non era possibile e nessuna altra agenzia aveva a disposizione automobili. Quindi restammo un altro po’ in città e poi ci trasferimmo in aeroporto, “prigionieri” dei ritardi di una delle peggiori compagnie aeree – in termini di qualità del servizio – sulla quale io abbia mai volato, almeno su tratte “domestiche“.

Solo che il terminal di El Calafate non è un super mega aeroporto come quelli che vediamo a Dubai! È un piccolo edificio con un bar-ristorante, due negozi di souvenir e i locutorios, la batteria di telefoni pubblici che allora era indispensabile per telefonare in Europa e collegarsi su internet e che adesso probabilmente è stato superato dai telefoni cellulari e dai tablet ampiamente diffusi anche laggiù.

Fu un pomeriggio estenuante: ne approfittammo per schiacciare un pisolino in posizioni non proprio confortevoli e per scrivere un po’ sul nostro diario di bordo (vizio che evidentemente mi porto dentro da molto tempo!).

Come un’oasi nel deserto così finalmente apparve nel tardo pomeriggio il nostro aereo: atterrava sulla pista con lo sfondo del lago Argentino in una serata che si prospettava ancora assai lunga.

Il volo per Bariloche fu molto tranquillo e rilassante: nemmeno due ore di volo e atterrammo tra i laghi della Patagonia. Peccato fosse buio pesto, ovviamente!

Prendemmo la macchina prenotata (per fortuna stavolta niente intoppi!) e andammo al nostro alloggio, l’Hostería Pájaro Azul, delizioso B&B poco fuori San Carlos de Bariloche, a trecento metri dallo spettacolare Lago Nahuel Huapi. Purtroppo arrivammo tardi per quell’unica notte di passaggio nella Provincia di Río Negro: ci siamo ripromessi che se un giorno dovessimo riuscire a tornare da quelle parti, allora sicuramente torneremmo in questo confortevole B&B, con le sue calde stanze in legno e gli stupendi terrazzi che si affacciano sul lago.

Cenato con la solita super grigliata, in un ristorante pieno zeppo di gente nonostante fosse già quasi mezzanotte, ce ne andammo a dormire molto presto in vista del passaggio delle Ande, previsto per il giorno dopo, e della ricerca di una sistemazione nella città di Valdivia, in Cile.

La mattina seguente andammo prima un po’ in giro per San Carlos de Bariloche, visitammo la locale cattedrale intitolata alla Nostra Signora di Nahuel Huapi e quindi ci mettemmo in marcia verso il confine cileno. Bariloche è una città molto particolare: i segni dell’influenza tedesca e austriaca – i fondatori infatti furono loro – sono evidenti. Per la posizione sotto le montagne, il verde lussureggiante, gli specchi d’acqua meravigliosamente blu, l’ordine e la pulizia del contesto urbano, sembrava più di stare in fra le Alpi Svizzere, in Tirolo o in Baviera: non di certo in Argentina!

Lasciata Bariloche, la strada che portava al confine con il Cile era di una bellezza disarmante: le vicine cittadine di Villa La Angostura e San Martín de los Andes si alternavano a laghi, cascate e foreste svolgendo una funzione rasserenante per la mente di un qualunque viaggiatore.

Mano a mano che salivamo lungo la Ruta 231, e ci avvicinavamo al Paso Fronterizo Internacional Cardenal Antonio Samoré, non soltanto la pioggia lungo il percorso ma anche una bella nevicata ci accoglieva in cima a 1.305 metri del passaggio di frontiera, condizioni che complicavano un po’ la vita degli esploratori su due ruote.

Dopo un delizioso pranzo a Osorno, dove provammo un eccezionale Pulpo al Pil Pil, ci dirigemmo verso Valdivia che riuscimmo a trovare nonostante la pessima segnaletica stradale cilena!

Fu strana la sensazione all’ingresso della città: avevamo letto, nella guida della Lonely Planet, che Valdivia era una città universitaria e piena di vita e di giovani. Fu così molto deludente l’entrata perché vedemmo tanta confusione e pochi studenti. Forse inconsciamente la confrontavamo con una delle nostre piccole città universitarie, da Pisa a Perugia, da Camerino a Padova, con i loro centri storici antichi e la vita attorno piena di studenti e professori. Beh, non era così, almeno quella volta.

Ci fermammo in un hotel molto centrale in maniera tale da parcheggiare l’automobile e spostarci a piedi la sera. Proprio la ricerca del posto dove cenare fu inquietante. Abituati agli amici argentini che amano la vita notturna e tengono aperte le cucine di ristoranti e pizzerie fino a notte inoltrata, rimanemmo esterrefatti nel constatare che moltissimi locali – pub compresi – fossero chiusi. Ci fermammo a mangiare in un piccolo pub non molto lontano, accontentandoci del poco che la cucina fosse disposta a cucinare e andammo poi a prenderci un gelato. Solo che non trovammo nessuna gelateria aperta nei dintorni (ed eravamo al centro!): soltanto il Mc Donald’s che alle 22.30 avrebbe poi chiuso! Ci fermammo a scrivere qualcosa sul nostro blog e ce ne tornammo in albergo.

Il giorno dopo però la città si fece perdonare: lungo il porto fluviale andammo a vedere da vicino i grandi leoni marini che vanno a rilassarsi proprio sulla banchina fluviale, facendosi fotografare dai visitatori, avvertiti da un cartello con su scritto qualcosa che probabilmente nessuno di noi avrebbe mai potuto solo pensarne il contrario!

Dopo aver salutato questi bestioni all’apparenza innocui e annoiati, cominciò la nostra traversata della Panamericana, la lunghissima strada che dalla Patagonia risale fino all’Alaska: nel tratto cileno sembrava non finisse più. Stretto fra il Pacifico e la Cordigliera delle Ande, il Cile ha un territorio allungatissimo e questa strada lo attraversa completamente. Ci fermammo a visitare il mercato di Temuco: avevamo letto che era tipico della zona anche se poco raccomandabile, ragion per cui tenevo stretta la mia attrezzatura fotografica per paura di qualche malintenzionato. In realtà, sulle strade di questa città della regione dell’Araucanía non c’era nessun pericolo in più di una nostra città di medie dimensioni nel Meridione. Evidentemente chi aveva scritto la guida non aveva avuto molte consuetudini con i pericoli della microcriminalità.

Frutta, verdura, formaggi, carni: colori e odori del mercato si mescolavano in maniera naturale alle culture ben mischiate che si potevano individuare, dai bianchi di origine europea ai nativi mapuche che offrivano la loro merce, specialmente prodotti di abbigliamento di lana.

Poco prima di pranzo ci rimettemmo in moto verso Viña del Mar: avevamo inizialmente previsto di fermarci una notte a Los Angeles o comunque a qualche centinaio di chilometri da Santiago, ma cominciavamo ad avvertire una certa stanchezza e una sorta di fase calante del nostro viaggio, visto che erano 15-16 giorni che giravamo attraversando paralleli dal Nord al Sud! Così guidammo fino all’elegantissima città sul Pacifico, splendida per il lungomare che vedete in alto ripreso di notte e per l’Oceano Pacifico che bagnava una doratissima sabbia cittadina.

Decidemmo di non impazzire troppo nel cercare un albergo e ci dirigemmo verso il Cap Ducal, un originale hotel a forma di nave che si staglia dalla costa e che sembra spiccare la rotta sul mare.

Viña del Mar è una città costiera e come tutte le città bagnate dal mare possiede quella magia che quelle dell’entroterra non possono avere. Se poi aggiungiamo il fascino dell’Oceano Pacifico, con il sole che se ne va a dormire proprio sul mare e colora d’oro tutto il cielo, con una passeggiata lungo il mare ampia e piacevole, ecco che questa città – famosa nel mondo per un importante festival musicale – diventa una meta affascinante e rilassante: si comprende perfettamente perché moltissimi santiagueños vi si precipitino dalla capitale, non appena a dicembre chiudono le scuole, sobbarcandosi due ore e mezza di strada non proprio scorrevolissima.

La costa a nord di Viña del Mar è di una bellezza mozzafiato: noi ci dirigemmo verso Reñaca, godendoci la tranquillità di una scogliera evidentemente ancora poco battuta, visto il periodo primaverile. Piena di locali lungo la strada sul Pacifico, ci fermammo a cenare in un elegante ristorante dove gustammo una squisiti piatti di pesce, con sullo sfondo un Pacifico abbastanza arrabbiato e guardato con sospetto persino dalle foche che stavano prendendo un po’ di sole sopra grandi scogli.

Praticamente in continuità con Viña del Mar, a sud si trova invece Valparaíso, secondo porto del Cile dopo San Antonio e di fatto seconda capitale del Paese, visto che è la sede del Parlamento dal 1987.

Con i suoi cerros, i colli raggiungibili con gli antichi ascensori a cremagliera; con il suo elegante ma caotico centro; con i tetti coloratissimi lungo tutte le colline che circondano il porto, clou della vita commerciale e cittadina, a Valparaíso si avverte la tensione culturale che l’attraversa e si intuisce come e perché abbia dato i natali a personaggi che hanno scritto nel bene e nel male la storia cilena e per certi versi hanno contribuito a scrivere anche un tassello di quella mondiale, da Salvador Allende ad Augusto Pinochet, fino a Pablo Neruda, probabilmente il cittadino più ricercato dal turismo impegnato, con i luoghi della sua vita e della sua produzione letteraria trasformati in musei e quindi in must di molti visitatori della città.

Lasciata la costa cilena, dovevamo tornare in Argentina, attraversando – così era nei piani – il Paso Internacional Los Libertadores, un passo andino che unisce i due paesi all’altezza di Santiago e di Mendoza. Giunti nella periferia della capitale cilena, nell’equivalente del loro Grande Raccordo Anulare, ci dovemmo confrontare con la penosa segnaletica cilena: se da un lato la bizzarria di indicare “ponente” e “levante” come direzioni ci fece sorridere, dall’altro trovavamo sconcertante che l’unica via di comunicazione fra Santiago e Buenos Aires via terra non avesse nemmeno un cartello con su scritto “Argentina” a indicarci la via.

Alla fine riuscimmo a imboccare la strada che ci portava verso il confine e cominciammo la salita verso il passo.

La scalata al Cristo Redentor, così viene talvolta chiamato il passo, cominciava con un percorso pieno di verde e di acque fresche. Una natura ancora una volta incontaminata che quasi ti dispiaceva doverla attraversa con le auto e soprattutto con i grandi autotreni che trasportavano merci da un lato all’altro della Cordigliera.

Mano a mano che salivamo cominciavano anche le preoccupazioni. Spesso forse nemmeno ci rendiamo conto di quale fortuna abbiamo noi in Europa, nel poter viaggiare con standard di sicurezza molto più elevati, che fanno delle nostre escursioni e delle nostre avventure piacevoli giornate in auto e non lotte per la sopravvivenza. Zeppa di TIR che in salita facevano una fatica bestiale e priva di guard-rail, la strada che conduceva a Portillo –  famosa località sciistica della regione – e soprattutto nel tratto successivo fino al tunnel appariva di una pericolosità assai grave, tanto che mia moglie – alla quale non fa certo difetto una certa parlantina – cessò improvvisamente di parlare, trattenendo il fiato a ogni tornante.

Soltanto arrivati sul versante argentino, dove facemmo una piccola sosta, Silvia mi raccontò tutta la sua paura nel vedere il burrone profondissimo e nel timore che le non perfette condizioni dell’asfalto avrebbero potuto farmi perdere il controllo della vettura.

 

Cominciammo la discesa verso Mendoza con l’animo un po’ più sollevato: la strada “argentina” non era nemmeno lontano parente di quella cilena, grazie soprattutto agli spazi maggiori che i nostri amici albiceleste hanno a disposizione.

La prima tappa fu Puente del Inca, una formazione geologica molto particolare nella quale vi era stato anche un hotel nel passato, ormai divenuto soltanto un centro di interesse turistico.

Il Cerro Aconcagua, la vetta più alta del Sud America, sembrava quasi a portata di mano, non fosse stato per i quattromila metri in più rispetto a dove ci trovavamo. Pensavo a un mio amico di Buenos Aires, Mariano, che mi aveva più volte invitato a scalarlo: adesso che me lo trovavo davanti, in tutta la sua maestà, mi chiedevo – con ammirazione – come potesse lui pensare di scalarlo. Se già noi sentivamo un freddo bestiale, con un vento che spazzava via qualsiasi velleità di stare all’aria aperta, figurarsi a oltre seimila metri come ci si doveva sentire!

Ci rimettemmo in marcia verso Mendoza, gustandoci un paesaggio totalmente diverso rispetto al versante cileno, molto più “rossastro“, dovuto alla presenza cospicua di ferro nel territorio mendocino.

In un paio d’ore arrivammo finalmente a Mendoza: dopo un po’ di giri per cercare un albergo decente libero, ci indicarono un nuovo (per l’epoca) apart-hotel, una sorta di residence tipico delle struttura di accoglienza argentine. Si chiamava Montañas Azules, nome che evocava un cielo limpido e sereno proprio come fu il soggiorno lì.

Nella sfortuna di essere capitati nella settimana della moda, quindi con tutte le strutture ricettive stracolme, fummo fortunati a scovare questo bellissimo e confortevole residence aperto da nemmeno sei mesi. Saputo della nostra luna di miele, ci regalarono una bottiglia di champagne che noi conservammo e aprimmo due mesi dopo in Sicilia, nella nostra casa alle pendici dell’Etna, dove festeggiammo il nostro primo Capodanno da sposati.

La sera cenammo con un’ottima parillada e quindi scovammo una stupenda gelateria italiana fondata da una signora veneta, rimasta poi vedova, insieme con il marito.

Mendoza ci piacque molto anche se nei due giorni che restammo lì l’adoperammo maggiormente per ricaricare le batterie. Troppa roba avevamo visto in giro e anche la mente aveva bisogno di staccare la spina.

Passeggiammo moltissimo al Paseo Sarmiento, un’isola pedonale molto elegante e piena di negozi. Acquistammo un po’ prodotti locali, da un tappetino di lana a un copribottiglia di vino in cuoio, l’altro pezzo forte dell’area insieme appunto all’industria della lana e del vino.

L’ultima sera a Mendoza andammo a cenare in una zona universitaria: molti giovani, molta vita, musica e divertimento. Era di certo una città molto gradevole da vivere, piena di eventi culturali interessanti.

Ma per noi era giunto il momento di rifare i bagagli e ripartire: mancava una settimana al nostro rientro in Italia e ci attendevano otto giorni a Buenos Aires, fra la visita della città, lo shopping e il tempo – mai abbastanza – da trascorrere con gli amici.

Andammo a dormire molto felici di quei giorni trascorsi sotto le Ande e l’indomani ci preparammo al rientro nella Capitale.

Ovviamente non avevamo fatto i conti con i mezzi di trasporto! Durante tutta la discesa dall’Aconcagua fino a Mendoza, avevo avvertito strani rumori al cambio della Volkswagen che avevo preso a Bariloche. Così la mattina della nostra partenza, giunto in garage per caricare i bagagli, trovai la sorpresa che si era rotta la frizione e che praticamente la macchina non riusciva a cambiare le marce!

Chiamato l’autonoleggio, ci cambiarono la vettura in men che non si dica e – dopo aver lasciato i bagagli in aeroporto – andammo a visitare una cantina, la bodega Luigi Bosca, dove imparammo a riconoscere qualche caratteristica dei vini argentini e soprattutto degustammo alcuni (troppi!) calici!

Terminata la visita ritornammo in aeroporto. Dopo un “normale” ritardo – ormai ci avevamo fatto l’abitudine! – finalmente decollammo verso Buenos Aires, dove atterrammo circa novanta minuti dopo e un taxi ci portò fino all’appartamento che avevamo preso in affitto per quella settimana, al centro della capitale argentina.

La nostra vacanza on-the-road in Argentina era terminata, lasciandoci gli occhi e l’anima colmi di bellezza naturale e di grande umanità. Avevamo percorso migliaia e migliaia di chilometri; eravamo saliti e scesi da aerei al volo; avevamo attraversato mari e deserti; scalato avevamo montagne e scoperto città. Molte cose avevamo fatto e tantissime altre ci eravamo persi perché questa è la dura legge del viaggio e dei viaggiatori: dover fare delle scelte di fronte all’imprevisto, cambiare strada per un’improvvisa deviazione, fermarsi a dormire una notte in più non rispettando il programma.

Se c’è un motivo per il quale amiamo viaggiare per strada, senza quasi nulla di prenotato, è proprio questo: avere la libertà di scegliere fino all’ultimo.

Perché un conto è pianificare da casa, un altro è poter scegliere in loco cosa il tuo viaggio diventerà: e chi ama sia la fotografia che il giornalismo, chi ama raccontare attraverso immagini e testi i propri viaggi, non può che concepire così la propria avventura.

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