Viaggio in Argentina /4 – Fino alla fine del mondo

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Atterrai la prima volta all’aeroporto di Ushuaia, la ciudad más austral del mundo, come enfaticamente fanno notare gli argentini, nel novembre del 2002, su una pista che ti lascia senza fiato – altro che il Colombo di Genova o il Falcone-Borsellino di Punta Raisi a Palermo – avendo quasi l’impressione di non avere scelta fra l’ammaraggio e lo schianto sulle Ande. Quando vi tornai invece con Silvia nel 2006 era quasi buio, per i soliti ritardi della compagnia di bandiera argentina, sicché lo shock psicologico almeno ci fu risparmiato.

Eravamo partiti da Trelew nel pomeriggio di una bellissima domenica di sole, trascorsa in riva all’Oceano e pranzando a base di pesce su un carinissimo bar sulla spiaggia. Quella mattina decidemmo di rilassarci e di trascorrerla come molti dei residenti di Puerto Madryn: assistemmo alla Santa Messa, potendo quindi osservare da vicino come la Chiesa Cattolica Romana ormai fosse “romana” soltanto di nome, facemmo una lunga passeggiata sul lungo mare e poi ci fermammo a mangiare un boccone prima di farci portare all’aeroporto di Trelew.

Decollammo da Trelew godendo di un panorama stupendo: l’immensità della Patagonia si manifestò in tutta la sua bellezza, lasciandoci una sensazione di meraviglia che difficilmente si può descrivere.

Fu un viaggio molto piacevole, lungo una rotta stupenda anche se interrotta ogni tanto da qualche banco di nubi, allietato dalla conoscenza di un ragazzino di una decina di anni – molto chiacchierone – che ci raccontava del suo ritorno nella Terra del Fuoco dopo aver visitato alcuni parenti a Buenos Aires.

 

Atterrati a Ushuaia, venne a prenderci Javier Piatti, proprietario di un B&B in mezzo al bosco che circonda la città e che ci ospitò in una camera da fiaba immersa proprio fra gli alberi.

Non abbiamo avuto molto tempo né forze di girare la sera per la cittadina australe, anche perché dopo una buona cena a base di Centolla Patagónica, un granchio piuttosto grande che vive da quelle parti, bagnata con dell’ottimo vino bianco, decidemmo di tornare nella nostra casetta dei sette nani a riposare, in attesa della tappa di trasferimento all’interno dell’isola grande della Terra del Fuoco diretti verso Río Grande.

Il viaggio verso la seconda città della Provincia della Tierra del Fuego cominciò con una piccola disavventura: l’autonoleggio era … chiuso! Javier fu così gentile da portarci all’aeroporto dove scoprimmo l’inghippo. Non ho mai capito come e perché ma la compagnia di noleggio, che scoprimmo poi non essere presente direttamente a Ushuaia e con la quale avevamo prenotato e preventivamente pagato il noleggio, aveva girato la prenotazione non a una ma a due diverse compagnie di rental, che naturalmente stavano litigandosi il cliente!

Dipanata la matassa, uno dei due si ritirò e ci consegnarono finalmente l’autovettura. Prima di lasciare Ushuaia volevo portare mia moglie dentro il Parco Nazionale: avendo già trascorso quattro anni prima tre giorni a Ushuaia avevamo deciso di vedere altro, passando appunto da Río Grande e poi da Río Gallegos.

Ma il Parco Nazionale dovevo proprio mostrarlo a Silvia: lì veramente finisce il mondo, al di là di quel Canale Beagle, oltre il quale v’è un breve lembo di territorio cileno e poi soltanto l’Antartide e il suo mondo di ghiaccio.

Lasciato il Parco Nazionale ci dirigemmo verso Río Grande su una strada bella da mozzare il fiato, con montagne, ghiacci e foreste che si alternavano lasciandoci a bocca aperta. Ricordavo che la prima volta che ero stato nella Terra del Fuoco avevo visitato un allevamento di Siberian Husky e Alaskan Malamute: erano i cani da slitta che nell’inverno australe venivano adoperati per suggestive escursioni. Conoscendo l’amore di mia moglie per i cani sapevo che quella sarebbe stata una sosta di suo gradimento.

Silvia fu molto felice della deviazione, specialmente perché ebbe persino la possibilità di avvicinare un lupo (nella foto in cima al post) che era stato salvato e che era sotto studio per comprendere se sarebbe stato in grado di inserirsi nuovamente nel proprio habitat o se viceversa gli sarebbe convenuto rassegnarsi a una “vita da cane“!

Forse fiutando – è proprio il caso di dirlo! – che stavamo per lasciare la loro “casa“, tutti quei bellissimi peluche in carne ed ossa ci salutarono con un ululato corale da farci quasi commuovere.

Risalimmo in macchina diretti verso la nostra meta felici di quella sosta breve ma piena di emozioni.

La strada che porta a Río Grande – nell’ottobre del 2006 – non era tutta asfaltata e questo la rendeva probabilmente ancora più straordinariamente bella da percorrere e da guidare. La velocità ridotta sul ripio, il tratto sterrato,  ci consentiva di ammirare ancora di più la bellezza incontaminata della natura che in quella parte del mondo assume colori e odori così intensi da guarire il viaggiatore di qualunque ipotetica sofferenza interiore egli possa patire.

Le montagne, i passi andini, la neve, i corsi d’acqua, i laghi, la steppa e l’oceano: in circa 200 km avevi l’impressione di attraversare mille paesi diversi e mille climi distinti.

Al Paso Garibaldi poi un panorama reso straordinario dai due laghi principali, il Lago Escondido e il Lago Fagnano, ci restituiva una vista così intensa e così limpida che difficilmente potremo mai dimenticare, nonostante un vento gelidissimo soffiasse dal Polo Sud.

Ci fermammo un’oretta alla Hostería Petrel – piccolo ma pittoresco complesso turistico proprio in riva al Lago Escondido – dove gustammo alcune empanadas come brunch, prima di rimetterci in cammino.

Costeggiato il lago, immerso in una vegetazione di un verde scintillante e ossigenante, continuammo sulla Ruta Nacionál 3 verso Río Grande, con un paesaggio totalmente cambiato, più vicino a una palude che alla secca steppa della Patagonia settentrionale del Chubut. Mano a mano che ci avvicinavamo all’oceano, e quindi alla nostra meta, un caldo sole ci riscaldava dal freddo patito precedentemente.

Arrivammo in città poco prima del tramonto: consegnata la vettura e preso possesso della stanza, ce ne andammo un po’ in giro scoprendo una cittadina quasi spettrale. Se c’era una cartina di tornasole del declino dell’industria manifatturiera argentina quella era Río Grande: città che aveva visto un grande sviluppo industriale nel settore elettronico negli anni ottanta ma che aveva subito la concorrenza dell’import portando una forte disoccupazione e una conseguente emigrazione verso il nord del Paese. È soltanto all’inizio di questo decennio che appare un’inversione di tendenza, specialmente con gli investimenti nel settore energetico.

Confesso che Río Grande ci lasciò una brutta sensazione tanto che preferimmo cenare in albergo anziché andare alla ricerca di qualche locale: d’altronde nemmeno la guida turistica della Lonely Planet decantava le lodi culinarie di qualche locale!

Il giorno dopo sarebbe stato molto pesante: il nostro viaggio prevedeva un trasferimento in bus verso Río Gallegos, capitale della Provincia di Santa Cruz, passando per il territorio cileno e attraversando in traghetto lo Stretto di Magellano.

Il viaggio verso la città principale della Patagonia meridionale fu molto faticoso, almeno per me che non riuscii a chiudere occhio a differenza di mia moglie che si sciroppò quasi otto ore di sonno, interrotte soltanto dai due passaggi doganali e dal traghetto!

Abituati agli imbarchi di Villa San Giovanni, in Calabria, quando si torna in Sicilia, l’attracco dei traghetti cileni ci sembrò un tantino surreale. La strada nazionale 257 semplicemente si interrompeva … perché c’era il mare!

Non c’era nulla attorno, nemmeno un guanaco, il camelide patagonico, che comunque mi avevano fatto molta compagnia durante il tragitto persino mostrandomi una bella lotta libera! Nulla, salvo un inquietante cartello post-bellico che richiamava l’attenzione alla presenza di mine sul suolo attorno a una stazione militare.

Per il resto si arrivò lì vicino al piccolo scivolo per lo sbarco dei mezzi, ci fecero scendere dall’autobus e quindi ci imbarcammo sul traghetto.

Dopo venti minuti di navigazione eravamo sull’altro lato dello Stretto di Magellano, pronti per il rientro in Argentina e quindi a Río Gallegos.

Río Gallegos era (e spero lo sia ancora) una gradevolissima città, piena di tanti ragazzi e giovani per strada, colore, vita. E anche con tanti localini dopo provare prelibatezze e soprattutto un ristorante, Don Bartolo, dove probabilmente abbiamo mangiato la migliore parrillada, la grigliata, di tutto il viaggio, con un galletto così squisito che tuttora – quando capita di cucinare del petto di pollo – non manca mai il commento “ti ricordi il polletto di Don Bartolo?“!

Dormimmo in una stanza senza infamia e senza lode di un piccolo ma confortevole albergo del centro della città e l’indomani abbastanza presto andammo in aeroporto a ritirare la nostra vettura. Tanto per consolidare la tradizione, stavolta il problema con la società di autonoleggio riguardò proprio la vettura che dovevano darci! La responsabile della filiale arrivò infatti in ritardo all’appuntamento proprio perché dovette portare l’automobile dal meccanico per un piccolo guasto! Finalmente in possesso delle nostre quattro ruote, passammo prima da un panificio indicato nella guida della Lonely Planet come un must (e quanta ragione aveva la guida!!!) e quindi in marcia attraversando la Patagonia del sud verso El Calafate, la porta di accesso al Ghiacciaio del Perito Moreno.

Non credo ci siano parole a sufficienza per raccontarvi cosa sia quella strada: dal guanaco allo zorro patagonico, la volpe; dai mará, una specie di grossa lepre selvatica, agli ñandú, gli struzzi di quelle parte, anche stavolta – come con i pinguini qualche migliaio di chilometri più a nord – eravamo noi gli ospiti.

Arrivammo a El Calafate nel primo pomeriggio: ci attendeva una sistemazione molto particolare, una bella cabaña, una baita, sul lago Argentino, molto confortevole e gestita da una coppia molto gentile che ci preparava un’ottima colazione casera, con conserve fatte in casa e le famose medialunas, i cornetti argentini.

Il pezzo forte di El Calafate, questa cittadina della Provincia di Santa Cruz cresciuta enormemente grazie all’afflusso di turismo dovuto alle politiche della famiglia Kirchner, Nestor e Christina, i due ultimi presidenti che da qui sono partiti politicamente alla conquista della Casa Rosada, è naturalmente lo spettacolare ghiacciaio del Perito Moreno, qualcosa di incredibile per chi ama la natura e la montagna.

Così com’era capitato a Iguazú, anche al Perito Moreno fummo fortunati. Il responsabile della filiale di autonoleggio, infatti, ci suggerì un’escursione alternativa. Anziché andare subito al ghiacciaio, ci suggerì un giro nei dintorni, da dove potevamo ammirare l’area circostante El Calafate, con i suoi boschi, fiumi e fauna.

Quando arrivammo quindi all’ingresso del Parco dei Ghiacciai, il grosso delle gite e delle escursioni organizzate stava rientrando negli alberghi e nelle estancias di El Calafate, lasciando ai pochi visitatori rimasti lo spettacolo del Perito Moreno, con le sue rotture e i suoi colori.

Al tramonto avevamo in programma un’altra attività: la visita dell’Estancia El Galpón, dove ero stato già nel 2002 e che sapevo sarebbe stata molto gradita a Silvia.

Il programma dell’escursione era abbastanza intenso: prima di una bella cavalcata fino alla riva del Lago Argentino, ci spiegarono tutto sulla lana delle pecore argentine, dell’addestramento dei loro cani e ci mostrarono come avveniva la tosatura.

La cena – ovviamente – non poteva che essere della tradizione patagonica, con il celeberrimo cordero, l’agnello, preparato con il classico asado.

Al termine della cena, un piacevolissimo spettacolo di balli tradizionali, argentini e patagonici, chiudeva una bella serata. Tango e milonga, danze della cultura del sud, raccolsero moltissimi applausi da parte di noi commensali, entusiasti per la bravura dei due ballerini.

Si ritornò alla nostra capanna dalla finestra della quale un folto gruppo di fenicotteri rosa riposava sulle rive del Lago Argentino.

Il giorno dopo visitammo la Laguna Nimez, uno specchio lacustre attorno a El Calafate nel quale moltissimi volatili si ritrovano durante la primavera. La sera andammo a cena da Leopoldo, un amico di La Plata che avevo conosciuto in occasione del mio primo viaggio argentino nel 2002 e che aveva da poco aperto il suo secondo locale a El Calafate dopo lo storico Don Diego de la noche.

Fu una bella serata, gradevole per la temperatura non troppo rigida che ci ispirò una bella passeggiata al centro della città prima dell’ultima notte in baita.

Molto spesso mi chiedono quale parte dell’Argentina io preferisca: una risposta unica francamente non ci può essere. Troppe “Argentine” ci stanno in un solo Paese, dalle cascate ai ghiacciai, dalle città al deserto.

Se invece mi si chiedesse quale parte del viaggio di nozze mi è rimasta più nella mente forse risponderei quella tratta che da Río Gallegos ci condusse a El Calafate.

Circa trecento chilometri in mezzo al nulla, nella steppa, con due soste a Esperanza – agglomerato di qualche casa – e alla località Las Horquetas (un bar e un distributore di servizio!), dove ci trovammo soltanto noi, i gauchos e gli animali della Patagonia.

Una strada che ci regalò paesaggi di rara bellezza, fiumi che sembravano disegnati dalla mano di un pittore e un vento che soffiava tra i capelli e sembrava parlarci e raccontarci la magia di queste lande così lontane e così mitiche.

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