Scrivere per sopravvivere
Sono state settimane molto intense, quelle, sia perché rivedere centinaia di post, scegliere quali pubblicare e quali tralasciare, impaginare, convertire per i nuovi formati elettronici e trovare la piattaforma di self publishing più adatta esaurisce tutte le risorse fisiche e mentali (lasciamo perdere quando poi scovi i refusi con il libro già stampato…) sia soprattutto perché constati con mano quanto difficile possa essere viaggiare a ritroso dentro di te, le tue emozioni, le tue sensazioni, le tue delusioni messe nero su bianco: ricordi che riaffiorano, dolori che si ripresentano, gioie che si riprovano.
Scrivere diventa quindi una sorta di viaggio dentro di te, nella tua anima, nel suo profondo, dal quale cerchi di tirare fuori qualcosa che solo tu vedi e soltanto tu conosci.
Ogni articolo di un blog, di un giornale, di un magazine, di una pubblicazione non è una mera successione di caratteri, parole e segni di punteggiatura posti più o meno alla rinfusa, a seconda della bravura dell’autore, per rendere quasi comprensibile il suo pensiero. È quasi sempre invece frutto di analisi, studio, introspezione ed emozione che un blogger, un giornalista o uno scrittore prova a mettere nero su bianco affinché i suoi lettori, tanti o pochi che siano, possano ricevere a loro volta un po’ di quell’emozione che si è provata. È in definitiva un piccolo pezzo di un percorso intellettuale, personale, filosofico-politico e religioso dentro il quale ci si cimenta, sperando di trovare la propria “via“, la propria “direzione“. Scrivere diventa quindi una sorta di viaggio dentro di te, nella tua anima, nel suo profondo, dal quale cerchi di tirare fuori – con segni intellegibili – qualcosa che solo tu vedi e soltanto tu conosci.
L’altra settimana, non ricordo se mi trovassi ancora in Valle d’Aosta oppure già fossi al caldo del mare di Nizza, ho letto su Repubblica un articolo che parlava di doppi lavori, duplici attività che molti – anche in Italia – stanno cominciando a mettere su per affrontare la crisi economica. Ma non è soltanto questa la tipologia di doppi lavoratori che cominciano a presentarsi lungo lo Stivale.
In un paese intrinsecamente conservatore come il nostro sembra quasi bizzarro che un individuo possa provare l’emozione di voler realizzare le proprie passioni magari per troppo tempo sopite
Seguendo ciò che da Londra Enrico Franceschini – corrispondente dal Regno Unito per il quotidiano diretto da Ezio Mauro – raccontava, comincia a emergere anche nel nostro Paese un altro tipo di doppio lavoratore, quello che lo fa non perché ne abbia veramente bisogno economico (ha un buon contratto, salario regolare, azienda solida) ma comincia una nuova attività per realizzare le proprie ambizioni e i propri sogni.
In un paese intrinsecamente conservatore come il nostro, dove appare ancora pericoloso e quasi un “peccato” anche il solo provare “ambizioni” verso se stessi, a prescindere della carriera “ufficiale” che si possa fare, sembra quasi bizzarro che un individuo possa provare l’emozione di voler realizzare le proprie passioni, magari per troppo tempo sopite per svariate ragioni: ma che siano state offuscate per condizionamenti familiari o sociali oppure per pura fatalità, spesso giovani e meno giovani fanno fatica non soltanto ad affermarsi nel “mercato tradizionale” ormai durissimo, ma anche a trovare la forza e il coraggio di portare avanti, con durissimi sacrifici, anche le proprie ambizioni imprenditoriali, creative, artistiche o espressive.
D’altronde in una nazione che ancora difende a spada tratta il valore legale del titolo di studio, come se una laurea alla Normale di Pisa fosse comparabile a una ottenuta in una sconosciuta università, in un paese dove vigono e sono duri a morire gli Ordini Professionali nonostante siano radicalmente cambiate quasi tutte le professioni presenti dopo il miracolo italiano del dopoguerra, in una società nella quale il “pezzo di carta” ha assunto nel passato più l’aspetto del traguardo da raggiungere – anticamera del posto fisso per tutta la vita – che non invece la partenza per le carriere e per la realizzazione personale e professionale dell’individuo, diventa complicato – per chiunque – provare a cambiare o quanto meno ad affiancare – alle quotidiane attività – anche la ricerca di un’altra meta, di una differente via che possa portare alla propria realizzazione.
In tutto ciò, spesso le famiglie italiane hanno responsabilità non da poco: certo ben vengano i sistemi di protezione familiare, il nostro vero “welfare” che sostituisce le scarsissime protezioni sociali che lo Stato non è riuscito a garantire, specialmente nel corso degli ultimi due decenni, vi è però un dato di fatto e cioè che le famiglie italiane hanno rappresentato per i più giovani spesso più un freno che un volano, inculcando più la mentalità della conservazione che quella della sperimentazione. Appare naturale quindi – nel nostro Paese – che l’investimento principale che ciascuno di noi dovrebbe fare, una volta affrancato dal nido d’origine, sia il “mattone“, la famosa “prima casa“, quella che tutta le retorica demagogica della politica affermano essere frutto del duro lavoro degli italiani, omettendo che invece si tratta quasi sempre del prodotto di eredità e colossali sperequazioni sociali che il nostro Paese ha vissuto e semmai oggi si stanno ancora di più ampliando (un conto è comprarla da sé la casa, un altro utilizzando i risparmi della tua famiglia).
Fortunatamente, il prodotto non soltanto della globalizzazione ma soprattutto della diffusione delle nuove tecnologie e l’avvento di una generazione di nativi digitali – paradossalmente più poveri dei loro genitori, caso unico nell’evoluzione dell’Occidente moderno – sta cominciando a portare un vento di cambiamento e nella crisi economica che stiamo vivendo si cominciano a osservare sperimentazioni di giovani, che – non avendo nulla da perdere – decidono di fare cose che veramente piacciono loro, spesso a dispetto del diploma incorniciato e impolverato sulle pareti della sala dei genitori (che continueranno a vantarsi del figlio ingegnere o della figlia avvocato anche se loro non fanno né l’uno né l’altro!), e di vecchi, che non si rassegnano a fare passacarte in un mondo nel quale i server compiono le stesse operazioni, che migliaia e migliaia di addetti nel passato compivano, lasciando una scia di noia e di depressione in molti travet.
Sono fermamente convinto che se la legislazione italiana fosse più comprensibile anche ai meno addetti ai lavori, a coloro che non hanno una laurea in legge, un master a Harvard e uno a Oxford, forse molti di questi nuovi lavori non soltanto emergerebbero riempiendo di soddisfazioni i loro autori, ma persino ne troverebbe giovamento il fisco e quindi la collettività per l’arrivo di fresche entrate pronte per essere impiegate per seri investimenti pubblici.
Essendo completamente inadatto a qualunque tipo di lavoro manuale che non sia cambiare una lampadina, aver scoperto nella fotografia e nella scrittura la mia voglia di affermazione personale rende relativamente più semplice sopravvivere in questa società
Da parte mia sono fortunato: essendo completamente inadatto a qualunque tipo di lavoro manuale che non sia cambiare una lampadina, aver scoperto nella fotografia e nella scrittura la mia voglia di affermazione personale diviene relativamente più semplice sopravvivere in questa società. Certo il break-even – il momento in cui gli incassi pareggiano le spese – è assai lontano, specialmente perché la fotografia è un’amante assai esigente in termini di attrezzatura, ma sono fiducioso che la realizzazione di sé e soprattutto il viaggio dentro te stesso – inevitabile quando lavori in campo creativo – non dipendono soltanto dai ricavi in termini economici che ottieni, ma anche – direi soprattutto – dalla qualità dei feedback ricevuti e delle persone con le quali hai la fortuna di confrontarti, sia amici e parenti di vecchissima data sia nuovi o sconosciuti interlocutori della rete.
Non dobbiamo ascoltare più del dovuto la generazione precedente. Lo dobbiamo soprattutto a noi stessi: perché dentro ciascuno di noi sia possibile trovare quella strada, quella via, quella grazia che ci porti alla sopravvivenza
Certo noi che siamo la generazione Robinson, cresciuta ascoltando l’esempio di Cliff e Claire e dei loro figli; noi che siamo maturati in piena era clintoniana, sognando Friends e Manhattan, noi probabilmente non riceveremo mai dalla generazione precedente quell’incoraggiamento a inseguire tenacemente i propri sogni nel modo in cui magari vorremmo (avremmo voluto) e avremmo (avremmo avuto) bisogno. Quella generazione, a sua volta figlia dell’immediato dopoguerra con il timore di ricascare nella povertà, non possiede gli strumenti adatti: è figlia della televisione in bianco e nero, dell’ombelico della Carrà e delle vacanze anni cinquanta in Versilia, a bordo di una topolino.
Dobbiamo accettarlo, non colpevolizzandola più di tanto e andando avanti.
Però abbiamo forse l’obbligo morale di non ascoltarla più del dovuto, di non lasciarci trascinare dalle sue paure, frutto di una società temprata dalla guerra fredda, dal timore che il cambiamento, anzi il rinnovamento, sia foriero sempre e solo di guai. E questo lo dobbiamo non soltanto ai nostri figli, verso i quali si fa spesso la solita retorica qualunquista e demagogica, come se questi possano mai crescere felici se educati da genitori frustrati, depressi e demoralizzati.
Ma soprattutto lo dobbiamo a noi stessi: perché dentro ciascuno di noi sia possibile trovare quella strada, quella via, quella grazia che ci porti alla sopravvivenza.