Viaggio in Argentina /2 – Sulla strada delle Missioni

 In VIAGGI

“Santità, la trascurabile questione che mi ha portato al limite estremo della vostra luce sulla terra è risolta. E gli indios sono ancora una volta liberi di essere fatti schiavi dai colonizzatori spagnoli e portoghesi”.

Cominciava così il film del 1986 The Mission diretto da Roland Joffé e con la memorabile colonna sonora di Ennio Moricone: iniziava con queste parole, recitate magistralmente da Ray McAnally che interpretava il Cardinale Altamirano, e con l’intenso primo piano dell’alto prelato, inviato dalla Santa Sede, che doveva “risolvere” l’annosa questione politica dei gesuiti, i quali si erano messi in mente di evangelizzare il nuovo continente e il popolo guaraní, indipendentemente dai problemi che averebbero reso ai colonizzatori. Mentre ci dirigevamo verso le rovine delle antiche missioni gesuitiche ripensavo a quell’inizio del film, con l’immaginaria lettera a Papa Clemente XIII, e all’intensità di quello sguardo.

Come forse ricorderete, eravamo partiti da Puerto Iguazú dopo aver ammirato la Garganta del Diablo, la meravigliosa gola delle Cataratas, in una mattinata che presagiva sin dall’alba una torrenziale pioggia lungo tutta la Ruta Nacionál número 12, la strada che ci avrebbe condotto a Posadas, la capitale della Provincia di Misiones. Prendemmo a noleggio una vettura proprio sotto lo Sheraton, caricammo i bagagli e ci dirigemmo verso sud, accompagnati dalla nostra mascotte, un simpatico peluche a forma di coatí!

Era una piacevole sensazione quella di guidare un’automobile lungo la strada misionera e scorgere l’alternarsi di paesaggi naturali e minuscoli villaggi, agglomerati urbani così diversi dalle zone abitate alle quali siamo abituati noi in Europa. Ti rendevi conto, e ce ne saremmo resi anche di più andando verso il profondo sud della Patagonia, dell’immensa estensione geografica di questo territorio argentino, che comincia nella regione subtropicale di Misiones e termina affacciandosi sull’Oceano Antartico, laggiù dove vivono soltanto i pinguini.

Ci fermammo per una mezz’oretta  a Eldorado, cittadina di cinquantamila abitanti circa, che si trovava quasi a metà del nostro cammino: lì trovammo un grazioso bar di strada e decidemmo di pranzare … in auto! Pioveva troppo forte e non c’era assolutamente modo di ripararsi.

In compenso la carne, sebbene non cucinata alla brace, era squisita. Ancora non avevamo provato il celebre asado argentino, ma quel panino con una fettina di carne  a la plancha (alla piastra) era veramente squisito!

Le condizioni del tempo ci impedivano di fare due passi e visitare la città. Così decidemmo di non perdere tempo e sperare che il cielo prima o poi ci avrebbe concesso una tregua … quanto meno per visitare le rovine della Missione di San Ignacio.

Arrivammo laggiù nel primo pomeriggio, con un gradevolissimo sole che finalmente era sbucato dalle nubi, e si respirava veramente un’aria diversa, quasi mistica. Non potevi non tornare con la memoria alla storia di noi bianchi, europei e cristiani che siamo partiti dal Vecchio Continente pensando di civilizzare quello nuovo e invece volevamo soltanto trovare nuove braccia e nuove gambe da schiavizzare.

L’impatto con le rovine, almeno quelle che sono rimaste ancora in piedi, è molto intenso: si apprezza il barocco con le influenze dello stile coloniale ma soprattutto si riesce quasi a “vedere” – con l’immaginazione – cosa tali missioni siano state nel passato. Luogo non soltanto di evangelizzazione delle popolazioni indigene, ma soprattutto unico baluardo affinché le loro comunità  non fossero spazzate via dall’egoismo di noi europei.

Spesso tendiamo a confondere la “Chiesa” con la gerarchia romana, con la Curia, quando invece è altro e tutto insieme in una sorta di frullatore religioso: gerarchia, fede, fedeli, liturgia. Ho ripensato recentemente a queste missioni gesuitiche due volte: la prima quando è stato eletto un gesuita, Bergoglio, al soglio di Pietro. La seconda quando ho visto le immagini dell’«inchino» della statua della Madonna al boss della ‘ndrangheta calabrese.

Ecco, laggiù – nella sperduta provincia sub amazzonica – potevi veramente sentire la forza dei gesuiti che avevano inventato queste reducciones proprio per valorizzare la popolazione alla quale portavano il messaggio di Cristo. Una chiesa molto vicina al popolo, forse come lo erano altri due grandi gesuiti che ho avuto la fortuna di apprezzare da giovane in Sicilia, Padre Pintacuda e Padre Sorge, che a Palermo furono – insieme con l’allora (e di nuovo!) sindaco Leoluca Orlando – protagonisti della nostra primavera negli anni novanta. Una vicinanza al popolo tenendo bene in mente cosa sia il messaggio cristiano, evidentemente assai distante da una parte delle comunità locali calabresi che – vuoi per quieto vivere, vuoi per potere – sono ancora troppo vicine alla criminalità organizzata, come abbiamo tristemente notato nei giorni scorsi durante la Processione della Madonna delle Grazie.

In religioso silenzio ci sedemmo su un grande masso scovato all’ingresso del cementerio, il cimitero dove chissà quanti indios e gesuiti erano stati sepolti. Non c’era una croce né una scritta: nulla. Solo un cartello che ci informava della particolarità del luogo in maniera tale che il visitatore portasse rispetto a coloro che giacevano sotto quella terra. Sopra di noi uccellini cinguettanti e un silenzio meraviglioso: se spesso i nostri cimiteri ci sembrano silenziosi – penso a quello di Catania, dove una volta era seppellita mia madre, quando facevi fatica ad avvertire le automobili in lontananza ma venivi nitidamente destato dal rombo degli aerei in atterraggio a Fontanarossa – lì, a San Ignacio, veramente c’era silenzio tutto intorno.

Prima di andare via facemmo in tempo a gustarci uno splendido tramonto sulle rovine di un grande cortile della missione e un giro al mercatino esterno dove acquistammo manufatti artigianali locali.

Partimmo quindi alla volta di Posadas dove giungemmo in tarda serata: l’albergo scelto era in pieno centro, a due passi dalla piazza principale e quindi rinfrescati e riposati per un po’ andammo subito a cena in un locale molto carino proprio a due passi dall’hotel, dove avevamo letto si preparava un ottimo asado (e in effetti era spettacolare!).

Non sapevamo però che quella era in realtà una serata particolare … tutta la città era infatti coinvolta nella Fiesta de los estudiantes, la festa degli studenti locali, che si traduceva – ovviamente – in un baccano bestiale che cominciò quella notte e terminò … boh, francamente non so se sia ancora terminato, a distanza di otto anni, visto che lasciammo Posadas nel pomeriggio in direzione di Trelew!

Dopo esserci fatti insordire dai ragazzi, ma anche divertire onestamente!, girammo un po’ la città prima di andare lungo il fiume Paraná e riposare  al tavolo di un bar prima di rimetterci in cammino.

Trovata la strada per l’aeroporto e consegnata la vettura al noleggiatore, aspettammo pazientemente che il nostro volo arrivasse dalla sua città di provenienza, ingannando il tempo scrivendo sul nostro diario (l’antenato del blog!).

Naturalmente – come ho già raccontato – l’Aerolineas Argentinas era (e temo lo sia ancora!) una pessima compagnia aerea … quindi il ritardo fu al solito epico e nemmeno una corsa per l’imbarco ci salvò dallo smarrimento dei bagagli! Avevamo coincidenza ad Aeroparque, lo scalo domestico della capitale, e ci vennero a prelevare direttamente dentro l’aeromobile per quanto ritardo avevamo portato.

Così ci misero su una navetta e ci fecero salire su un altro aereo che ci avrebbe portato – in due ore circa – all’inizio della Patagonia, nella Provincia del Chubut, dove si trova la Penisola Valdés e dove cominciavano otto giorni intensi tra balene, pinguini e tanta, tanta natura.

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