Viaggio in Argentina /1 – La potenza della natura
Aveva senza dubbio ragione Eleanor Roosevelt, per dodici anni First Lady degli Stati Uniti d’America, quando in visita alle Cascate dell’Iguazú esclamò la sua meraviglia gridando “Povere Cascate del Niagara! In confronto a queste sembrano un rubinetto della cucina che perde!“.
Non sono ancora stato a Niagara ma le cascate del Río Iguazú le ho visitate due volte. La prima volta che andai lì, nel 2002, fui sì colpito dalla portata d’acqua e dal vasto fronte dei salti che si ammiravano non appena giunti alla prima balconata, ma ciò che mi fece venire le vertigini era il suono dell’acqua, il ruido, il rumore provocato dall’enorme quantità di acqua che precipitava verso il letto inferiore del fiume prima di imboccare la via della confluenza sul Río Paraná.
Giunsi alle cascate insieme a un gruppo organizzato: eravamo ospiti di un albergo nel piccolo paesino di Puerto Iguazú e visitammo le cascate, dal lato argentino e dal lato brasiliano in due giorni. Quattro anni dopo, invece, l’hotel scelto da me e mia moglie per la prima notte del nostro viaggio di nozze fu lo Sheraton che si trovava proprio all’interno del Parque Nacional del Iguazú, nella parte argentina. Eravamo partiti da Catania, dove ci siamo sposati, la mattina del giorno dopo il nostro matrimonio atterrando a Fiumicino poco prima di pranzo, con il volo per Buenos Aires che sarebbe partito solo alle 20. L’euforia delle nozze, di un tour lunghissimo (ventotto giorni) e dell’avventura sulle strade sudamericane ci fece superare quelle dieci ore di attesa allo scalo romano con relativa facilità. Il giorno dopo, atterrati in mattinata all’aeroporto internazionale di Ezeiza, alla periferia di Buenos Aires, ci venne a prendere un nostro amico, Mariano, che ci trasportò all’altro scalo porteño, l’Aeroparque, da dove saremmo dovuti partire in meno di un’ora per Iguazú. Purtroppo il nostro volo fu cancellato dalle Aerolineas Argentinas, una delle peggiori compagnie aeree sulle quali ho volato: mai si fu tanto grati per la cancellazione! Arrivammo allo Sheraton nel pomeriggio avanzato, quando ormai tutte le comitive stavano andando via, lasciando il parco … tutto per noi.
Fu una sensazione indescrivibile: registrati, cambiati e via di corsa a godersi la prima escursione sul lato Argentino. Se quattro anni prima il ruido mi sembrò impressionante, quel pomeriggio – soli davanti alla potenza delle acque – sembrava di poter ascoltare la voce della natura, la voce di Dio per chi crede.
Circondati da mille variopinte farfalle e da tantissimi volatili che sembravano essere il coro di una polifonica orchestra, incuriositi dai coatí, una specie di procioni dal naso grande e tenuti a debita distanza alcuni rettili, ce ne stavamo lì, fermi, sulle varie balconate delle passerelle a contemplare la bellezza di un’opera d’arte naturale, noi piccole creature di fronte all’immensità.
La prima sera cenammo in hotel, anche perché dire che eravamo esausti era poco. Il giorno dopo invece onorammo le meraviglie delle folli (per il fegato!) colazioni di questi mega hotel con un desayuno che avrebbe dovuto fornirci energie fino alla sera, anche perché non sapevamo se il tempo di pranzare ci fosse stato o meno! Cosa che peraltro puntualmente accadde: mangiammo una cosa al volo dopo il giro sul lato brasiliano prima di fare altre due escursioni. Arrivammo in stanza felici ma distrutti, così ci organizzammo una cenetta romantica sul terrazzino del nostro hotel, davanti alle cascate, mangiando le tipiche empanadas e sorseggiando un buon vino argentino!
Sarà che eravamo mieleros, sposini, sarà che eravamo euforici per un viaggio che avevamo programmato da quasi un anno e studiato nei minimi particolari durante le nostre vacanze estive, sta di fatto che non ci rendemmo assolutamente conto del tour de force che ci avrebbe atteso. Sì, perché Hector, il nostro remisero, l’autista privato che avevamo assunto per scarrozzarci fra l’Argentina e il Brasile, ci aveva rassicurato che lui ce l’avrebbe fatta a portarci su e giù attorno alle cascate ma che ovviamente le attività che avevamo in mente erano abbastanza stancanti.
Effettuata una fermata di rito alla frontiera, immortalata dalla solita fotografia a cavallo del confine, eravamo pronti per una lunga cavalcata che ci avrebbe portato quasi a toccare con mano le Cascate dell’Iguazú.
Beh, se il pomeriggio, il tramonto e la sera erano stati suggestivi e romantici, la mattina era l’esplosione dei colori e della vitalità della natura. Sotto un sole che sin dal mattino ci ricordava che eravamo in una zona a due passi dal tropico, gironzolavamo in lungo e in largo godendoci la passerelle sul lato brasiliano che ci avrebbero condotto a due passi dai salti.
Di corsa, dopo aver saccheggiato il negozio dei ricordi più commerciali e acquistato una tipica amaca brasiliana da un venditore ambulante lungo la strada, ci facemmo condurre da Hector verso il lato argentino dove avevamo prenotato l’escursione più suggestiva della nostra visita alle cascate: l’avventura in barca.
Credo sia stata un’esperienza meravigliosa, trovarsi a due passi da tutta quell’acqua che cadeva giù, terrorizzato – lo confesso – per tutta l’attrezzatura fotografica che si sarebbe potuta rovinare se non ci avessero fornito di due enormi sacchi impermeabili!
Eravamo esausti ma non ancora sazi: dopo una rapida sosta in camera eravamo di nuovo in marcia verso il porticciolo di Puerto Iguazú, pronti per l’ultima escursione della nostra seconda giornata argentina visitando una comunità guaraní che proprio lì, al triplo confine fra Brasile, Argentina e Paraguay, dove i due fiumi si intersecano, stavano provando a coniugare tradizioni indigene e istruzione.
Salpammo su un battello e il cielo ci regalò un tramonto meraviglioso, dorato, che baciava il letto dei due fiumi e rendeva l’atmosfera calda, accogliente e romantica. Bambini sul barcone mezzi assonnati, giovani coppie come noi in cerca di romanticismo, mature signore dal nord del continente americano giunte fino all’altro emisfero per festeggiare la vittoria sul cancro: questa era l’umanità che ci circondava insieme alla gente del posto, famiglie indigene che suonavano per noi e ci vendevano i loro oggetti costruiti con semi di caffè e asticelle di bambù.
Riassettate le valigie, la sera andammo a letto molto presto, grati per tutte quelle esperienze e pronti per l’ultima mattina a Misiones. Mancava soltanto il pezzo forte di Iguazú: la Garganta del Diablo, la gola del diavolo, il principale ed enorme salto nel vuoto di tanta di quell’acqua che nessuno di noi avrebbe mai potuto immaginare.
Saliti sul piccolo trenino che ci avrebbe condotto all’ultima passerella, il cielo sopra di noi cominciò a diventare sempre più scuro, sebbene ci fece la grazia di farci gustare la vista senza bagnarci più di tanto.
Fu un’esperienza molto suggestiva, poetica direi. Avevamo visto la natura in tutto il suo splendore, in tutta la sua forza e in tutta la sua bellezza. Avevamo visto tante volte quelle cascate ritratte magistralmente da Roland Joffé in The Mission, il film che parlava della strage di guaraní ad opera della Spagna e del Portogallo colonizzatori, ma dal vivo era un’altra cosa.
Saldammo il conto dell’hotel, andammo all’autonoleggio per ritirare la macchina, una Fiat Siena (modello sudamericano paragonabile alla Duna!), e ci mettemmo in viaggio verso Posadas, la capitale della Provincia di Misiones, ma soprattutto alla volta di San Ignacio Miní, il sito archeologico dove vi sono le rovine di una delle più importanti missioni gesuitiche dell’area.
Ma questa è un’altra storia.
Alla prossima.