Una vera seconda repubblica
Sono stato da sempre un sostenitore del primato del sistema parlamentare su quello presidenziale. Ho sempre ritenuto Westminster migliore di quello White House. Tuttavia affinché un sistema istituzionale funzioni, delicatissimi equilibri costituzionali devono riuscire a mantenersi.
Dopo venti anni di bipolarismo forzato possiamo giungere serenamente alla conclusione che l’innovazione maggioritaria introdotta a suo tempo dal referendum Segni e la conseguente legge elettorale di impronta maggioritaria ha fallito.
Per una serie di ragioni: innanzi tutto perché anziché favorire le aggregazioni, e quindi i punti in comune, il Mattarellum ha prodotto più partiti di quanti ce ne fossero nella cosiddetta Prima Repubblica. Non solo: a dispetto della logica maggioritaria, che vorrebbe che chi perde si facesse da parte per lasciare spazio al ricambio, in Italia si è cambiato il nome ai partiti come se cambiando soltanto questo si divenisse improvvisamente seri. Inoltre, la presenza di Berlusconi con il suo gigantesco (e ancora irrisolto) conflitto di interessi ha prodotto una serie incredibile di leader bruciati a sinistra per via da un lato di un limite personale e caratteriale (Romano Prodi, pur vincendo le elezioni due volte non si è certo rivelato un grande mediatore; Massimo D’Alema, per il suo essere molto antipatico) e dall’altro dalla incapacità di affrontare la forza finanziaria e mediatica dell’allora Cavaliere (Francesco Rutelli e Walter Veltroni).
Abbiamo dovuto aspettare il progressivo declino del leader di Forza Italia, cominciato ormai cinque anni fa quando l’ex moglie Veronica Lario inviò al giornale la Repubblica la sua lettera di sdegno per le frequentazioni del marito con le minorenni, affinché dall’altro lato della barricata sbocciasse la nuova stella del Partito Democratico, Matteo Renzi, che si è preso con forza partito e governo.
la paura dell’enorme conflitto di interessi dell’ex Cavaliere non ci può condannare al progressivo smottamento della conquiste democratiche del Paese e la garanzia di un leader democratico ed eletto in via democratica dal suo partito, come Matteo Renzi, non può certo essere sufficiente per garantire il futuro della Repubblica
Tuttavia i problemi di natura istituzionale ovviamente non sono certo stati risolti. Anzi. Se possibile si sono anche aggravati e vediamo il perché.
La sconvolgente (per il distacco) vittoria di Renzi e del Partito Democratico alle ultime elezioni europee ha inevitabilmente significato la legittimazione elettorale che il segretario del PD non aveva in quanto subentrante a chi aveva condotto la segreteria alle scorse politiche. Era inevitabile che un meccanismo di lavacro elettorale si ripercuotesse sul partito di maggioranza relativa e sui relativi gruppi parlamentari che – a prescindere dall’ormai pressoché totale unità – salvo Civati e i suoi – sono figli delle primarie di fine 2012 e delle liste bloccate con i relativi capilista.
Lo scontro all’interno del PD è stato francamente surreale: a Corradino Mineo è stato rimproverato di essere stato messo in lista da Bersani (poi comunque egli ha appoggiato Civati e non Cuperlo alle ultime primarie per la segreteria) come se Simona Bonafè e Maria Elena Boschi avessero passato le forche caudine del voto degli elettori piddini (entrambe furono candidate in posizioni garantite in quota Renzi).
Tuttavia non è questo il punto e nemmeno l’interpretazione da azzeccagarbugli (d’altronde se Manzoni ne scrisse già a suo tempo un motivo ci sarà, no?) secondo la quale il vincolo dell’articolo 67 della Costituzione sia valido in aula e non in commissione dove rappresenti il gruppo parlamentare: oltre al fatto che la Carta non prevede (né potrebbe) tale distinzione, Mineo comunque rappresentava una consistente fronda all’interno del PD, rappresentativa di una consistente fetta di elettorato di sinistra (si ricordi che l’unico pseudo vincolo al quale un parlamentare potrebbe sentirsi legato è il programma elettorale depositato all’atto di costituzione e presentazione della coalizione, in questo caso Italia Bene Comune del 2013) al quale si stava chiedendo il silenzio in commissione in forza di un vincolo di maggioranza di governo (peraltro non si era mai votato in seno al gruppo nessun testo base di riforma).
Ma a parte le cadute di stile da ambo le parti (Renzi che afferma di “non voler lasciare l’Italia in mano a Mineo” con la solita spocchia del nuovo “unto dal Signore” e Mineo che ha due cadute di stile vergognose sugli “autistici” e sulla “parità di genere“) il problema – politicamente – non è certo questo.
Sta invece in un sistema istituzionale che ha cercato di aggirare la Carta Fondamentale, che prevedeva un governo del paese di tipo parlamentare, personalizzando gli scontri senza però istituzionalizzare l’avvenuta ormai modifica di fatto dell’umore dell’elettorato al momento del voto.
Mentre fino al 1992 si votavano DC, PCI, PSI, PRI, PLI, PSDI … oggi si vota – piaccia o non piaccia – una persona, una leadership. Berlusconi, Grillo o Renzi (ordine alfabetico): questa è stata di fatto la scelta che ci siamo trovati di fronte alle urne il 25 maggio.
È chiaro che dal momento in cui l’esecutivo diventa molto forte (e lo è da tempo con l’abuso della decretazione d’urgenza e la concomitante apparizione della legge elettorale precedente che ha reciso di netto ogni legame con il territorio al tempo del Mattarellum) ciò che manca in Italia è un meccanismo di controllo e riequilibrio del Potere Legislativo. Il Parlamento e il singolo parlamentare diventano sempre di più ostaggio rispettivamente del governo e della maggioranza del proprio partito, qualunque essi siano.
A chi sostiene la correttezza dell’intervento su Mineo vorrei ricordare che in occasione della crisi siriana la Camera dei Comuni ha bocciato il governo Cameron che aveva chiesto una delibera per l’azione militare qualora dagli Stati Uniti fosse partito l’ordine d’attacco. Nessuno si è sognato – a Londra – di scomunicare alcun parlamentare a Westminster per il solo fatto che si era schierato contro la maggioranza dei Tories e contro Downing Street. Il fatto è che nel Regno Unito la figura di garanzia è incarnata da un monarca senza poteri e che a un Primo Ministro molto forte si bilancia un Parlamento altrettanto forte e poco incline ai poteri di ricatto che dall’esecutivo possano arrivare, con i parlamentari eletti direttamente dal popolo nei loro collegi uninominali. È quindi una questione innanzi tutto culturale e frutto di secoli di consolidata prassi della più antica democrazia del mondo.
Negli Stati Uniti d’America, invece, Congresso e Casa Bianca si trovano ai due lati di Pennsylvania Avenue, quasi simbolicamente a indicare la distanza che deve esserci fra Potere Esecutivo e Potere Legislativo. Non solo: mentre la limitazione all’esecutivo è data dal limite di due mandati posto al Presidente nella Costituzione Americana, il Congresso si rinnova ogni due anni e il Senato ogni sei. In questo modo può anche capitare che le due fazioni politiche si debbano mettere per forza d’accordo (come ormai avviene dal 2010) affinché l’Amministrazione vada avanti. Ma negli Stati Uniti, a parte una minoranza che “odia” Barack Obama per via del suo colorito non proprio ariano, il Presidente è “di tutti” non soltanto del Partito Democratico, pur avversando legittimamente tutti i provvedimenti che non si condividono.
Ora in Italia ci trova invece in una situazione paradossale: eleggiamo “di fatto” direttamente l’Esecutivo ma in un sistema parlamentare. Poi a maggioranza il Parlamento può persino eleggere il Capo dello Stato. Se passa la riforma elettorale “Italicum” come approvata dalla Camera e la riforma del Senato proposta dal Governo, tutti gli organi di garanzia, per i quali sono previsti i due terzi dell’assemblea in seduta comune, possono essere eletti ancora una volta da una sola parte politica.
Come se non bastasse, l’esecutivo continua ad abusare della decretazione, impone il voto di fiducia per stroncare il dibattito e addirittura rimuove commissari che non sono allineati ai progetti di maggioranza, persino quelli riguardanti la forma dello Stato (è questo – torno a precisare – che ritengo inaudito: non si tratta di una riforma di indirizzo economico e politico ma della cosa più importante – la Costituzione – che uno stato democratico possiede).
Allora delle due l’una: o si varano pesi e contrappesi in grado di garantire un altro tipo di equilibrio analogo a quello pensato dai Padri Costituenti e che ha funzionato quando vigeva il sistema proporzionale (quindi ad esempio nessun voto di fiducia sui decreti legge altrimenti non soltanto il Governo legifera – e non potrebbe – ma addirittura ricatta; sfiducia costruttiva per garantire l’esecutivo e il suo potere di dirigere il Paese efficacemente; ampliamento del minimo numero di parlamentari per la costituzione di un gruppo per scoraggiare ribaltoni e trasformismo) oppure è meglio passare al Presidenzialismo (che sia all’americana o alla francese poco importa) modificando quindi tutto il sistema per garantire l’equilibrio costituzionale fra i tre poteri dello Stato.
Personalmente continuo a ritenere il modello Westminster applicabile soltanto quando il Paese sia sufficientemente maturo da produrre leader e non capi, uomini e donne capaci di guidare una nazione: non comandare esercitando la forza bensì dirigere convincendo.
Il problema dovrebbe essere affrontato a prescindere da chi sostiene il Presidenzialismo (Berlusconi) e da chi siede al Governo (Renzi): perché la paura dell’enorme conflitto di interessi dell’ex Cavaliere non ci può condannare al progressivo smottamento della conquiste democratiche del Paese così come la garanzia di un leader democratico ed eletto in via democratica dal suo partito, come Matteo Renzi, non può certo essere sufficiente per garantire il futuro della Repubblica.
Prima o poi uno più spregiudicato dell’ex sindaco di Firenze potrebbe anche capitarci. E con i nostri precedenti sarebbero dolori.