L’impero e la provincia
Chiunque si trovi a passeggiare a Roma lungo Via dei Fori Imperiali, in prossimità del Colosseo, avrà notato quei quattro lastroni di marmo sulla Basilica di Costantino con le rappresentazioni dell’evoluzione dell’impero romano che arrivò – nel primo secolo dell’era moderna – ad occupare gran parte della moderna Unione Europea, spingendosi verso Oriente e verso il Mar Rosso e occupando tutta l’area mediterranea del Maghreb.
Mi è tornata in mente la mappa dei Fori subito dopo aver letto il post di Vittorio Zucconi sulla provincializzazione dell’imminente voto europeo. Sono molto d’accordo con l’editorialista di Repubblica e ne condivido l’intimo rammarico perché per la prima volta, dal 1979, anno nel quale si tennero le prime elezioni per il Parlamento Europeo, noi cittadini dell’Unione abbiamo la possibilità di incidere più direttamente sulla guida della Commissione che ovviamente sarà un ballottaggio fra Schulz e Juncker.
Putroppo nel nostro Paese – che ogni anno conosce una campagna elettorale da quando Berlusconi è sceso in campo nel 1994 – è ancora una volta prevalsa la politicizzazione della consultazione europea: persino in TV durante un talk show ho sentito una commentatrice affermare che si tratta di un’elezione analoga a quelle di mid term che avvengono in America. Peccato che negli Stati Uniti l’amministrazione – per quanto risulti azzoppata da un Congresso rinnovato e contrario venuto fuori dalle consultazioni di metà mandato – continua il proprio lavoro fino alla scadenza naturale dell’incarico. In un paese come il nostro, che ha conosciuto la degenerazione degli scioglimenti anticipati delle Camere, il rito di metà mandato, sia una volta la consultazione continentale oppure le amministrative che ogni anno coinvolgono milioni di cittadini elettori, diventa arma di ricatto o di vanto – a seconda dei vincitori e dei vinti – rispetto al governo e alla maggioranza pro tempore.
Nonostante un primo momento, nel quale Matteo Renzi aveva lasciato intendere che le elezioni europee non avrebbero di certo rappresentato il banco d’esame del suo esecutivo, è stato evidente che la legittimazione popolare – costituzionalmente non necessaria ma propagandisticamente desiderata all’epoca delle primarie – fosse uno dei punti salienti del programma dei cento giorni del nuovo governo. Nato in maniera rocambolesca dopo aver rasserenato Enrico Letta, l’esecutivo a guida del segretario del Partito Democratico non poteva non essere trascinato o trascinare il dibattito in una sorta di referendum fra maggioranza e opposizione, come una specie di esame di riparazione e di tenuta di una maggioranza che – in molti dimenticano – nasce in realtà dal capolavoro di ottobre di Enrico Letta, quando l’allora Premier tenne il punto contro Silvio Berlusconi e provocò la rottura fra il delfino Alfano e il fondatore di Forza Italia. Il voto di fiducia del 2 ottobre 2013 segnò infatti l’irrilevanza – ai fini della tenuta del Governo Letta – del Cavaliere e del suo nuovo/vecchio partito di Forza Italia e aprì la strada alla decadenza del Cavaliere dal Senato che in molti – nel centrodestra – speravano portasse anche alla fine del governo con il PD e lo scioglimento anticipato delle Camere.
Dopo la sentenza della Consulta che ha azzerato il Porcellum (sebbene in realtà ha prodotto una legge proporzionale con sbarramento assai simile alla legge tedesca spesso invocata e adesso nemmeno presa in considerazione), le primarie del Partito Democratico stravinte da Matteo Renzi e le continue tensioni nella stessa principale componente della maggioranza, in molti abbiamo auspicato che l’esecutivo fosse guidato dal segretario del PD: non soltanto quelli che vedono nell’ex sindaco di Firenze l’ultima speranza e l’ultima ancora di salvezza del nostro Paese, ma anche coloro che – come chi scrive – pensano che la normalizzazione di un sistema democratico – sul modello Westminster – sia salutare, a prescindere da chi guidi fra destra e sinistra il Paese. Sebbene la presa del potere di Renzi e dei suoi accoliti è sembrata quanto meno poco educata e assai sgrammaticata da un punto di vista di bon ton personale e politico, il fatto che il Governo Renzi sia nato a febbraio è stato senza dubbio un bene. Certo restano molte perplessità sulla tenuta psicologica di molti esponenti renziani e tantissimi supporter del Primo Ministro, della prima e della seconda ora, che prima erano sostenitori dell’inevitabile lavacro elettorale prima di qualunque ingresso a Palazzo Chigi del loro beniamino poi improvvisamente – una volta entrati nel Palazzo – diventati strenui difensori della Carta, che non contempla infatti l’elezione diretta del Capo del Governo, né la sua indicazione, ma soltanto la parlamentarizzazione dell’esecutivo, peraltro in un rapporto in teoria molto bilanciato con il Parlamento che invece viene sistematicamente – ormai da troppo tempo – ridotto a braccio legislativo del Governo.
Sotto queste condizioni era impossibile che il voto europeo non fosse politicizzato al massimo livello, riconducendolo in una sorta di elezione primaria pro o contro Renzi: d’altronde un governo nato in maniera rocambolesca, che come primo provvedimento economico s’inventa la restituzione delle tasse per i lavoratori dipendenti e il taglio di 10 miliardi di IRAP per affrontare il mostro del cuneo fiscale, che porta a casa il DDL Delrio sull’abolizione degli organi elettivi delle province, che riesce a votare in prima lettura alla Camera la nuova legge elettorale e trova un faticoso accordo sulla riforma costituzionale del Paese, per forza di cose politicizza il voto europeo e amministrativo di fine maggio, invitando peraltro a nozze le opposizioni – a cominciare dal Movimento Cinque Stelle – che hanno tutto da guadagnare in una conta su scala nazionale dei rapporti di forza.
Appare quindi chiarissimo, alla luce dell’accordo del Nazareno del gennaio scorso, quando Matteo Renzi – provando una “profonda sintonia” – annunciò la possibilità di votare delle riforme insieme a Forza Italia, risuscitando ancora una volta Silvio Berlusconi a padre della Patria, il perché il principale obiettivo di Renzi, del PD e di tutte le altre forze del Governo sia Grillo e la sua setta di follower: d’altronde lo stesso Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri Graziano Delrio, l’uomo ombra di Renzi nel Governo, ha sottolineato come un NCD troppo basso e un PD che non sfondi il 30%, unito a uno scarso risultato di Forza Italia, porrà per il governo grossi problemi di sopravvivenza, dato che l’esecutivo ha legato indissolubilmente alle riforme istituzionali ed elettorali la stessa propria ragione d’essere. Se infatti alla luce dei risultati del febbraio 2013 Forza Italia e il suo presidente si potevano grosso modo considerare rappresentativi di un terzo degli elettori, quindi una larga maggioranza parlamentare con quel partito era garanzia di tenuta nel Paese delle riforme, un exploit di Grillo, a spese di PD e di Forza Italia, metterebbe la parola tombale su riforma elettorale e riforma del Senato.
Con una posta in gioco così alta è stato abbastanza scontato che di temi europei praticamente non si è discusso, così come di fatto nessuno di noi si renda conto che per la prima volta il popolo dell’Unione Europea può partecipare al gioco della scelta dei propri governanti, con un meccanismo che supera persino la babele linguistica che questa comunità porterà sempre con sé.
Sarebbero di certo potute essere elezioni europee differenti se avessimo avuto la fortuna, lo scorso anno, di avere un governo in sella e molto forte, sebbene il dubbio che la nostra ormai definitiva provincializzazione nel mondo credo serpeggi in chiunque osservi, analizzi e commenti la nostra politica nazionale, ormai irrilevante nel continente e nel mondo intero.
D’altronde quale credibilità può mai avere un Paese che consente a chi froda il fisco di essere condannato a quattro ore la settimana di servizi sociali, a chi è condannato per essere stato il garante di Cosa Nostra con la politica di fuggire in Libano e con il suo capo/amico e con il partito che hanno insieme fondato che rappresentano – ancora! – l’interlocutore privilegiato per le riforme; che ha un ex ministro dell’Interno e poi dello Sviluppo Economico arrestato per aver favorito la latitanza di un ennesimo politico colluso con la ‘ndrangheta e che vive l’ennesimo scandalo (dell’Expo di Milano) che coinvolge il sottobosco politico addirittura riportandoci indietro di venti anni per la presenza delle stesse facce?
Come noto a chi mi segue da quattro anni su queste pagine io sono un malato del voto perché ho conosciuto personalmente chi ha rischiato la vita per farci avere questo diritto del quale spesso abbiamo abusato nel passato: per la prima volta – tuttavia – comprendo coloro che si astengono, che non ritirano la tessera, che non si recano alle urne nemmeno per annullare la scheda o per lasciarla in bianco. Li capisco perché il livello di disgusto nel Paese è ancora tanto.
Comprendo ma non giustifico: perché è troppo comodo gettare il fango sui politici, additarli a responsabili di ogni nefandezza del nostro Paese, quando poi siamo i primi che cerchiamo i sotterfugi, le scorciatoie, le strade o le raccomandazioni! Oppure invochiamo politiche ambientali e poi non raccogliamo la cacca dei nostri cani per strada.
L’educazione civica, il rispetto, la moralità dovrebbero essere in ciascuno di noi e se partoriamo – come società questa classe dirigente – è semplicemente e lapalissianamente perché siamo così, a dispetto di intellettuali o artisti che poetizzano una società civile sana oppressa da una classe dirigente e politica feroce e immorale.
In un contesto come questo è evidente che trovare la voglia di partecipare alla competizione europea, basandosi sui programmi delle grandi famiglie europee di appartenenza, non è così semplice. Perché non basta dirsi di sinistra radicale per votare Tsipras senza peraltro aver ascoltato da lui mezza parola sul perché Syriza abbia accettato nel passato lo scempio delle pensioni d’oro a 40 anni o l’ereditarietà del posto pubblico come accadeva in Grecia, in barba a qualunque principio non soltanto di meritocrazia ma anche di pari opportunità che la sinistra dovrebbe garantire, aprendo autostrade al disfacimento dei conti pubblici greci.
Così come è complicato votare un partito, come il PD, che per garantire la rappresentanza del socialismo italiano, nelle liste dell’Italia Centrale, abbia accettato una candidatura molto discussa e sconveniente di un uomo che ha fatto i salti delle quaglie, ritrovandosi ora nuovamente socialista dopo un passato in Forza Italia e nell’Italia dei Valori.
Da parte mia l’unica cosa certa è che il 25 maggio andrò al mio seggio per le ragioni storiche che ho espresso ma se e su chi metterò la croce ancora non lo so: se dovesse in me prevalere la voglia di partecipare alle nostre provinciali europee allora sarà dura, poiché ho un giudizio in parte critico e in parte no sul governo.
Se invece prevarrà l’animo europeo, allora sicuramente esprimerò una preferenza che sarà per un partito pienamente e convintamente europeo ed europeista: perché se c’è una cosa che ci hanno insegnato, quelli che hanno costruito l’impero che vedete rappresentato su queste pagine, è che Historia magistra vitae e un po’ di storia – noi abitanti del continente europeo nel XXI secolo – dovremmo forse ripassarla.