Friends Forever – Amici per sempre

 In MEDIA

Era una sera di maggio di dieci anni fa, quando al termine di una doppia puntata che fece il record di ascolti, scese definitivamente il sipario su una serie televisiva che ha fatto la storia della mia generazione, gli under 50 di oggi, che guardando quel telefilm ha sognato, amato, sofferto, riso, identificandosi in quei sei giovani di belle e tante speranze alla ricerca della loro strada e del loro futuro.
In Italia quella doppia puntata andò in onda un anno dopo, sul secondo canale pubblico, in un epoca nella quale ancora non era di moda la trasmissione in simultanea con gli States e soltanto chi di noi si era impossessato illegalmente delle clip video era riuscito nell’intento di non farsi rovinare il finale dagli spoiler facilmente reperibili in rete.
D’altronde che in Italia si trasmettesse sempre con un certo ritardo era cosa arcinota, soprattutto per quella mania di voler soltanto doppiare e quasi mai sottotitolare le opere cinematografiche in lingua inglese.
Il volto affannato di Rachel in abito da sposa e in fuga dall’altare, che entrò prepotentemente nelle nostre case attraverso la TV, lo conoscemmo con ben tre anni di ritardo rispetto alla première americana, nel 1997. Jennifer Aniston stava già diventando qualcuno a Hollywood, così come gli altri cinque Friends, quando anche il pubblico italiano cominciò a ridere delle loro surreali discussioni sul divano del Central Perk, l’immaginario caffè del Village nel quale spesso venivano ambientate le scene.
Realizzata nel 1994, la prima stagione di Friends, Amici – come fu tradotto dalla TV Svizzera di lingua italiana e che grazie al cielo ci siamo risparmiati nello Stivale, era l’apoteosi dell’America di Clinton, un’America che usciva da una recessione che era costata la rielezione a Bush padre – nonostante la vittoriosa Guerra del Golfo – ad opera di quel giovanotto, il governatore dell’Arkansas, che avremmo imparato a conoscere anche per la sua intemperanza con la lampo dei calzoni. “It’s the economy, stupid” – evocò sagacemente durante la campagna elettorale e fu proprio per l’economia americana, spinta con il turbo proprio in quegli anni di Bill alla Casa Bianca, che gli americani perdonarono proprio tutto al 42° inquilino di quella bruttarella villa coloniale al 1600 di Pennsylvania Avenue di Washington.
Friends ci ha accompagnato negli anni Novanta, anni che sono stati – per noi che ci avvicinavamo ai trenta – una fucina di sogni, progetti, eccitazione.
Ci siamo immedesimati nei sei personaggi: anzi in porzioni dei loro personaggi, in ciascuno di essi.
L’ossessiva e maniacale Monica, che nonostante una madre fredda e anaffettiva riesce – forse per una intima catarsi – a dare tantissimo affetto e amore agli amici, al compagno poi marito, ai figli; lo strepitoso, imbranato, dolce, generoso e nerd Ross nel quale milioni di figli di buona famiglia hanno rivisto se stessi; il timido, lunatico, malinconico e sprezzante Chandler, che ha rappresentato quella parte di noi che cerca di sdrammatizzare con l’ironia le difficoltà che la vita ci propone e che compie – improvvisamente – un gesto che per noi italiani è assolutamente impossibile anche soltanto concepire: lasciare il lavoro, che per uno strano scherzo del destino l’aveva portato a Tulsa, in Oklahoma, lontano oltre mille miglia da Manhattan, dalla moglie e dagli amici, soltanto per seguire il suo sogno, il suo desiderio di lavorare per la pubblicità, abbandonando quel mondo di numeri e fogli elettronici che non erano per lui e che probabilmente aveva seguito ascoltando magari le sirene delle mode e le cassandre dei tromboni televisivi ma non il proprio cuore.
Friends è stata una serie televisiva che ha rivoluzionato come poche il costume e il linguaggio della gente: il taglio Rachel, riprodotto anche su teste (e volti) molto poco simili a quello della Aniston, è diventato nel corso degli anni un must per parrucchieri e stilisti.
I tormentoni verbali, che nel nostro Paese non sono mai stati a pieno apprezzati per una assurda e stolta direzione di doppiaggio che evidentemente non ripassava le serie precedenti prima di procedere con quella nuova, sono diventati di così pubblica diffusione che ormai nemmeno ci facciamo caso.
Quante volte abbiamo ascoltato “I’m so sorry”, anziché quell’espressione “very sorry” mille volte imparata a memoria a scuola! Per poi arrivare all’ineguagliabile “we were on a break” (ci eravamo presi una pausa) che nei paesi di lingua inglese diventò una sorta di giustificazione per qualunque fraintendimento amoroso e non!
E come non ricordare il seduttivo “Come va?” di Joey, traduzione di “How you doin’?” che nella versione italiana fortunatamente hanno lasciato inalterato per tutta la durata della serie.
Questa serie ha toccato, anzi ha accarezzato, tutte le problematiche aperte nella società americana della fine del secolo scorso: dal matrimonio omosessuale all’adozione dopo la nascita, dalla fecondazione eterologa all’ossessione per il lavoro che Wall Street incarnava e incarna ancora.
Carezze sempre molto delicate, rispettose di tutte le sensibilità di un’America troppo complessa per essere esaminata, descritta e giudicata in venti minuti di format televisivo.
Era l’America della luce e del sole prima che quella mattina dell’11 settembre le tenebre avvolgessero il WTC, New York e il mondo intero.
Forse per sempre.
Non ci sono state – dopo allora – altre serie dall’impatto così spensierato e giocoso: conformemente con la nuova America terrorizzata e rappresentata al massimo livello da Bush figlio, persino le ultime tre stagioni degli amici, pur affrontando mille argomenti molto scottanti per l’epoca (e non solo), sono diventate più tristi e meno spensierate. Il mondo evidentemente non consentiva più di giocare e scherzare come prima.
D’altronde se le serie più longeve, oggigiorno, sono CSI e NCIS, quindi due polizieschi dove il sangue corre a fiumi; se i maggiori successi planetari sono costituiti da The Following, storia di morte, sangue e sette, e il nuovo – per noi italiani – House of Cards, con putridi intrighi per il potere, la ragione sta forse in questo nuovo mondo che viviamo da quella mattina di fine estate del 2001.
Quando guardavamo le prime stagioni TV ammiravamo quegli States che consentivano ai nostri coetanei oltreoceano di lasciare il nido della mamma e spiccare finalmente il volo: sognavamo anche noi di andare a vivere da soli o insieme ad amici senza per forza legarci nel sacro vincolo del matrimonio, spesso affrettando i tempi. Adesso, venti anni dopo quella prima e dieci anni dopo la fine di Friends, siamo al paradosso che l’empty nest, il nido vuoto che le famiglie americane sperimentano (sperimentavano?) quando i loro figli cominciavano la loro avventura al college e di fatto si staccavano per sempre dai genitori, spesso cambiando stato, si va nuovamente riempiendo dai nuovi poveri di ritorno, quei trenta-quarantenni che non riescono più a sostenere economicamente la loro indipendenza.
Siamo stati fortunati – tutto sommato – noi quaranta-cinquantenni di oggi: grazie a una serie come Friends siamo riusciti almeno a sognare e in parte o in tutto a realizzare sogni e aspettative: l’ebbrezza di una speranza si leggeva e si guardava anche attraverso talune opere televisive.
Oggi invece si producono intrighi, sangue, sacrifici, serial: come se di pari passo con la nostra crisi economica si sia persino affievolita la capacità di immaginare e sognare un futuro più roseo e felice. E nonostante l’enorme speranza che si è creata nel 2008, con l’ascesa al trono laico dell’Occidente di Barack Hussein Obama, è come se fossimo rassegnati all’oblio, persino dentro le nostre quattro mura.
Fortunatamente i sei amici non hanno mai ceduto alle pressioni dei fan di fare una réunion speciale, come è stato fatto con le quattro amiche di Sex and the City.
Non avrebbe senso: come non esiste più l’America di Clinton, nemmeno se il 45° presidente fosse la gentile consorte Hillary, non potrebbero mai oggi funzionare i sei volti di Ross, Chandler, Joey, Monica, Phoebe e Rachel. Non per il loro aspetto, evidentemente, ma perché è il loro mondo a essere cambiato.
Siamo noi tutti a essere cambiati e – soprattutto – i trentenni di oggi, quelli che dovrebbero sognare, volare e immaginare, sembrano così devastati dalla precarietà delle loro vite lavorative che non riescono nemmeno a pensare un percorso diverso per le loro vite e per il loro futuro, preferendo in massima parte – nel nostro Paese – inseguire il pifferaio magico del malaugurio, il quale prospetta un mondo cupo e disperato, composto di una moltitudine di individui che anziché provare a realizzare sogni, cercare strade, scambiare pace e cultura con gli altri loro simili in giro per il mondo, dovrebbero vivere al solo scopo di ricevere l’obolo per la mera sopravvivenza in questo mondo.
No, un’undicesima stagione, un episodio speciale, sarebbe qualcosa di troppo malinconico, soprattutto per noi che con loro siamo cresciuti: rivedremmo – persino in altissima definizione e in 3D – le nostre stesse rughe e i nostri stessi capelli bianchi.
Vedremmo nei loro occhi, nei problemi che inevitabilmente affronterebbero con i loro figli e nelle preoccupazioni per i loro genitori, le nostre stesse sensazioni e le nostre stesse angosce, rovinandoci quindi un po’ il ricordo di quegli anni e di quelle serate nelle quali ci hanno tenuto compagnia: quando loro sono stati un po’ parte di noi e un po’ i nostri amici, quando non c’erano telefonini, non c’erano social, non c’era la rete.
Non era né un mondo migliore né peggiore: era semplicemente diverso, soprattutto perché di anni ne avevamo meno di trenta e avevamo tutta la vita davanti da immaginare e sognare.

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