Lo stadio siamo noi
Quando Simone Perrotta segnò il primo dei due gol contro la squadra del Catania (in questo video potete rivedere la disfatta rossazzurra all’Olimpico di Roma), nei distinti nord io, giovane catanese appena rientrato da Buenos Aires dopo un mese di luna di miele, mi alzai dalla poltroncina e mi misi le mani ai capelli (anzi al berretto rossazzurro!). Ero andato con mia moglie a guardare la partita con una coppia di amici grazie a mia sorella e a mio cognato che – impossibilitati – ci avevano lasciato gli ingressi.
Non erano nemmeno trascorse due settimane dal nostro rientro sul suolo italiano e una domenica all’Olimpico, in uno di quei deliziosi pomeriggi di novembre quando ancora l’estate non ne vuole sapere di lasciare il posto all’autunno, era quello che ci voleva. Ci si divertì molto, cantando l’inno della Roma insieme ai nostri amici ed emozionandoci guardando i tifosi del Catania lì all’Olimpico, al nostro primo anno di serie A, dopo la promozione del mese di maggio.
Anno di grazia, per me, quel 2006: prima il Catania promosso in A, poi il mondiale a Berlino, quindi le nozze e infine quello che è stato forse il più bel viaggio della mia vita fra Argentina e Cile, dalla Capitale del Mondo fino alla Fine del Mondo.
Grazia che durò fino a quel minuto, però, quando dopo il gol del centrocampista della Roma un sedicente tifoso giallorosso mi riportò alla triste realtà del nostro Paese, un Paese dove in nome del calcio si pensa di poter fare e giustificare qualunque altra cosa.
Una bottiglia da un litro e mezzo d’acqua, piena (quindi circa un chilo e mezzo), mi venne lanciata addosso dalla parte alta dei distinti nord, colpendomi al fianco destro e rovinandomi l’intero secondo tempo. Naturalmente rimane il mistero di come sia stato possibile che questo tizio abbia portato sugli spalti una bottiglia intera quando a noi persino le bottigliette da mezzo litro furono aperte all’ingresso.
Non successe altro, fortunatamente, dopo l’incontro, anche perché il 7-0 era stato devastante: ma anche una bottigliata sulla schiena, per una partita di calcio, a me sembrò eccessiva.
Ora ascoltare le reazioni di ultras, tifosi, gente comune alla vicenda di sabato sera, in una città malata di calcio come questa, mi ha riportato alle reazione di amici e colleghi al racconto di allora. «Ma tu perché sei andato con la sciarpa e il berretto del Catania fra i romanisti?» – mi dicevano, stigmatizzando la mia scelta di voler trascorrere due ore con gli amici anziché fra estranei – anche se catanesi – allo stadio. Forse ero ancora troppo inebriato del romanticismo mielero e di natura incontaminata per aver anche solo osato pensare che uno – la partita – se la possa godere dove si vuole. Avevo dimenticato che lì non vale la legge dello Stato bensì quella dello Stadio, quella del sopruso e della prepotenza.
Oggi – come allora, come nel 2007 dopo l’omicidio di Raciti, come nel 1983 quando all’ultima giornata al Cibali morì un tifoso del Catania ucciso dal custode dello stadio, come nel 1982 quando durante la partita di Coppa Italia con la Juventus vidi con i miei occhi l’imbecillità della gente che si pestava – sento ripetere che la colpa è “dello Stato“.
Ma mai nessuno che osservi che – in fin dei conti – lo Stadio siamo noi.
Sì, noi, questa società che abbiamo creato e che ha tollerato i legami delle nostre società calcistiche con i gruppi organizzati di tifosi, spesso in mano alla criminalità organizzata, ai quali sono stati affidati, per convenienza di presidenti e dirigenti sportivi, molti business complementari al prodotto calcistico, in grado di garantire flussi di ricavi alle casse – sempre più vuote come gli spalti – delle squadre di serie A.
E ogni giorno che sento i cosiddetti esponenti della società civile, come quelli che si autoproclamano “cittadini“, inveire contro i politici, mi monta una forte rabbia: perché su quel tratto di Lungotevere Flaminio, vicino al teatro Olimpico dove è stata rinvenuta la pistola con la quale è stato colpito il napoletano Esposito, non c’erano i “politici” a combattersi: c’eravamo noi, abitanti di questo assurdo Stivale che siamo ancora molto ma molto distanti dal divenire – finalmente – cittadini.