Testimone dei “giorni bugiardi”
Ho impiegato qualche mese prima di decidermi ad acquistare “Giorni Bugiardi“, il saggio scritto da Stefano Di Traglia (ex portavoce di Bersani) e Chiara Geloni (ex direttore di Youdem.tv) sugli ultimi due anni di difficile vita politica dell’Italia e soprattutto del Partito Democratico. Non ho voluto acquistarlo subito perché quei due anni, su questo blog, li ho vissuti molto intensamente e soprattutto i giorni dell’elezione del Presidente della Repubblica, ormai quasi un anno fa, hanno provato chiunque avesse a cuore le vicende istituzionali del nostro Paese.
L’altra settimana poi mi sono deciso e l’ho preso su Amazon.
Sapevo che su alcuni argomenti non mi trovavo particolarmente in sintonia con i due saggisti: ad esempio ho sempre creduto (da prima delle politiche 2013) che Stefano Rodotà potesse essere un grande Presidente della Repubblica e che andasse costruita in Parlamento quella candidatura. Poi però i risultati elettorali sono stati purtroppo deludenti e un accordo con una delle due forze maggiori era necessario.
Rileggere le vicende del PD, a partire dall’estate del 2012 quando Pierluigi Bersani decise di proporre di variare lo statuto del partito per consentire a un altro “democratico” di sfidarlo alle primarie di coalizione, nonostante l’avversione di tutto lo stato maggiore del partito, colpisce: soprattutto quando la mente si sposta alle dichiarazioni odierne con le quali si teorizza oggi l’importanza che il leader del maggior partito sia anche Capo del Governo.
Su queste pagine l’ho sempre sostenuto, ricordando persino di quando lo trovassi corretto già nel 1998 quando Massimo D’Alema andò a Palazzo Chigi dopo la caduta del primo Governo Prodi.
Nell’estate del 2012 invece si è cercato di colpire la leadership di Bersani chiedendo primarie aperte ad altri candidati democratici, in barba a quello stesso statuto che oggi invece sembra di nuovo intoccabile. E tutto sommato ci si riuscì perché passò il messaggio che Bersani fosse il vecchio e Renzi il nuovo. A quasi due anni di distanza, con il secondo che governa con Alfano e che è andato a Palazzo Chigi con la vecchia spregiudicatezza democristiana, diventa persino retorico un interrogativo su chi fosse più nuovo nelle primarie della coalizione Italia Bene Comune.
Grazie al racconto di Geloni e Di Traglia, e anche alla prefazione di Riotta e alla postfazione dello stesso Bersani, mi sono sentito “meno solo“, con la consapevolezza di “averci visto giusto” lo scorso anno. La storia alla fine la fanno sempre i vincitori, è vero, ma è altrettanto evidente che sia a dicembre 2012 che ad aprile 2013 posso con certezza affermare di non aver avuto le traveggole!
Ho scritto lo scorso anno di come Pierluigi Bersani fosse l’uomo giusto nel Paese sbagliato e lo posso confermare – a fortiori – proprio oggi, giorno nel quale ricorre il ventesimo anniversario della prima vittoria elettorale di Berlusconi.
Certamente “Giorni Bugiardi” è un libro “di parte“, nel senso che i due autori, strettissimi collaboratori dell’ex segretario PD, ovviamente hanno una loro visione sulla politica e sulle strategie di comunicazione. Ma i fatti, ricostruiti magistralmente e con dovizia di particolari, non lasciano molto adito a sorprese. Se fosse un giallo, l’assassinio politico del governo del cambiamento sarebbe del tutto evidente. Non dico ci sia stata una cospirazione politica ai danni di Bersani ma è del tutto lapalissiano che una volta appurato che i risultati elettorali avrebbero potuto portare a una fortissima incertezza, frutto dello scellerato meccanismo della legge elettorale e dell’irresponsabilità di Mario Monti e della sua Scelta Civica di candidarsi come elemento di disturbo più che di equilibrio, le forze più conservatrici del Paese hanno spinto tutte insieme affinché il tentativo di Bersani non andasse in porto. Perché in fin dei conti l’Italia è un paese conservatore e le paure dei cambiamenti attraversano tutti gli schieramenti politici.
Colpisce, nel resoconto dei due Dem, la mole di documenti ritrovati al Nazareno dopo le dimissioni di Bersani: questi, insieme a molti collaboratori, aveva già preparato le prime proposte di legge scritte non su PowerPoint (per eccitare la stampa!) ma proprio sotto forma di articolati. Proprio perché – nella sua concezione di uomo di governo – il buon Governante è colui che sa stupire non con gli annunci e con la comunicazione bensì non i fatti.
Non possiamo certo sapere se l’Italia sarebbe veramente potuta cambiare dopo le elezioni del 2013 e se con Bersani al Governo forse un po’ dello spirito di quelle lenzuolate del 2006 si sarebbe tradotto in serie leggi sul conflitto di interessi e su una più forte lotta contro l’evasione fiscale, a partire dalla tracciabilità e dal limite all’uso del contante, argomenti che – non so se lo avete notato – sono ormai latitanti dalle agende del Governo e del Parlamento, nonostante quasi tutti i sedici ministri e il Presidente del Consiglio Renzi siano ben propensi all’utilizzo di ogni nuova tecnologia sia stata inventata.
In ogni caso non lo sapremo mai.
“Giorni Bugiardi” è un bel libro, scritto bene e che soprattutto non fa sconti a nessuno, a cominciare proprio da loro stessi, dalla classe dirigente del PD: ne viene fuori un PD immaturo, incapace di assumersi mezza responsabilità, terrorizzato da tweet che possano arrivare dai territori.
Ma è anche un libro che racconta la durezza della politica che spesso si sposa pochissimo con l’immagine edulcorata che i media, compiacenti all’occorrenza, ci lasciano trasparire. Con questo libro Di Traglia e Geloni aprono le porte a un mondo che – chi sta fuori dai Palazzi – pensa sia sempre fatto di inciuci, di segreti, di complotti e che invece è molto più vicino a qualunque contesto lavorativo di quanto noi possiamo immaginare.
Scopriamo così che l’incontro a due che Bersani ebbe con Berlusconi per l’elezione del Capo dello Stato e che tanti insulti fece beccare all’allora segretario PD, fu il secondo in assoluto di tutta la sua vita: il primo fu quando l’ex segretario corse in ospedale a Milano dopo il ferimento del leader dell’allora Popolo della Libertà. La dice lunga sul carattere di un uomo, poco incline ai riflettori e ai microfoni, e più a suo agio fra la gente che a tramar inciuci. Eppure la vulgata corrente era che il bonario cardinale di Piacenza, come lo chiamavano sui siti per aggirare i sondaggi assurdamente vietati nelle ultime due settimane di campagna elettorale, fosse espressione dell’establishment, dei poteri forti, del Palazzo e degli accordi indicibili, a differenza delle fresche novità che cominciavano ad apparire all’orizzonte, come se Montezemolo, Della Valle, Marchionne non rappresentassero o rappresentino ancora oggi “establishment“.
Di questo libro, ovviamente, la parte che fa più male – specialmente perché mi vide particolarmente coinvolto da un punto di vista emotivo, lo scorso anno, con confronti e scontri con amici e colleghi – è quella che riguarda la rielezione di Giorgio Napolitano. Soprattutto c’è una data, il 12 aprile 2013, che molti di noi non hanno dimenticato perché oggi – ricostruendo i puntini come disse Steve Jobs nel famoso discorso di Stanford – dà un senso compiuto ai giorni che hanno portato alla fine del Governo Letta e al varo del primo Governo Renzi. Quel giorno di quasi un anno fa Massimo D’Alema e Matteo Renzi si incontravano a Palazzo Vecchio: nonostante l’odierno premier si spacciasse per campione assoluto di trasparenza, di dire sempre le cose in faccia, di quell’incontro non abbiamo nulla, nemmeno mezzo tweet. Una settimana dopo prima venne impallinato Marini e poi Prodi, mandando definitivamente a casa le ambizioni del governo del cambiamento di Pierluigi Bersani e aprendo la strada a un nuovo governo di larghe intese.
In questo saggio ovviamente è più facile che si riconosca uno come me, non iscritto al PD ma che considerava Bersani il miglior prodotto dei governi dell’Ulivo che avevamo visto, piuttosto che un sostenitore acritico di Matteo Renzi e che considera il suo leader come una sorta di “anima candida“: d’altronde la fretta con la quale l’attuale segretario del PD esternava su tutto – tranne quando non gli conveniva – era quanto meno singolare. Tuttavia anche ai “renziani della prima ora” suggerirei di darlo uno sguardo a questo libro: perché così come la ruota ha girato e ha voltato le spalle a Pierluigi Bersani capiterà che prima o poi anche a Matteo Renzi la storia chiederà il conto, sia delle cose buone che avrà fatto sia dei piedi che avrà pestato e delle schiene che avrà trafitto.
Un’ultima considerazione: si evince – nemmeno troppo velatamente – che Pierluigi Bersani non avesse tanta voglia di andare a Palazzo Chigi, o meglio di non volerci andare a ogni costo. Per Bersani il Governo del Paese, come lo era stato nel passato l’Amministrazione della sua regione e dei dicasteri a lui affidati, passava innanzi tutto dalla possibilità realmente di cambiare le cose, avendo però la libertà di farlo. Bersani si era convinto che un governo di larghe intese o comunque un modo di governare troppo simile a quelli del passato, non servivano all’Italia del XXI secolo.
Ho la sensazione che forse Pierluigi Bersani continuava a sperare che il “berlusconismo” non fosse qualcosa di inevitabile e che si potesse sconfiggere definitivamente con la serietà. Ma come ho scritto stamane era un progetto probabilmente destinato dalla sconfitta perché dopo venti anni se c’è un indiscusso vincitore nella società italiana è Lui: il suo modo di concepire la vita pubblica, il suo stile privato, al netto delle scelte edonistiche e voyeristiche del recente passato, il suo ostentare pubblicamente e platealmente la propria vita e la propria storia, non poteva certamente manifestarsi in un uomo, Bersani, allergico a telecamere, agiografie, riviste patinate.
Era forse inevitabile – e noi troppo fideisticamente non l’avevamo capito – che ancora una volta gli italiani non volevano cambiare se stessi e porre la parola quindi fine sulla storia da ascoltare prima di andare a nanna, crescendo – una volta per tutte – e imparando a leggersela da soli, questa benedetta favola della buona notte.
Gli italiani – e i risultati del febbraio 2013 ce lo hanno confermato – hanno voluto continuare ad avere qualcuno che gliela raccontasse, questa benedetta fiaba. Hanno voluto soltanto cambiare il narratore, ma di leggere con i propri occhi proprio non ne vogliono sentire.
Forse era persino inevitabile che un anno dopo, nonostante l’avesse detto in ogni modo che non avrebbe voluto candidarsi alla segretaria del PD, perché non interessato al partito, Matteo Renzi cambiasse idea e si facesse “plebiscitare” dal popolo di centrosinistra, popolo che – rassegnato o sollevato che sia – ha trovato il suo, di narratore, e può continuare a fare i propri sogni d’oro.
p.s. Un interessante aneddoto nel libro riguarda l’allora vice segretario del PD Enrico Letta. Di ritorno dalla Toscana, Letta racconta che la madre lo supplica di fare un governo con tutti “tranne con Berlusconi”, a dimostrazione che la famiglia Letta non è che fosse proprio una propaggine del Cavaliere. Chissà se il Fatto Quotidiano avesse meno calcato la mano su quel “sono tutti uguali”, equiparando vergognosamente Berlusconi a Bersani soltanto per fare un favore a Grillo, magari qualche senatore grillino avrebbe avuto il coraggio di far nascere il cambiamento anziché dire sempre e soltanto di no.