E venti anni dopo vince sempre Lui
Mi alzai presto, quella domenica, abbastanza fiducioso che le prime elezioni politiche “maggioritarie” avrebbero portato la mia sinistra, l’alleanza che venne chiamata dei “progressisti” e guidata da Achille Occhetto, a poter chiudere finalmente chiudere quel cerchio e completare il capolavoro che un anno prima era riuscita a fare conquistando tutte le maggiori città – Milano esclusa – nelle prime elezioni dirette dei sindaci.
Era il fiore all’occhiello dell’alleanza: la sua sapiente tenacia nell’amministrazione della cosa pubblica nelle cosiddette “regioni rosse” faceva ben sperare per l’amministrazione dell’intero Paese.
Avevo partecipato anche direttamente a quella campagna elettorale, impegnandomi – nel poco tempo che mi restava nel mio quarto anno di Ingegneria – con un caro amico nei gruppi locali che si erano costituiti, nella difficile sinergia fra i “cristiano sociali“, “la Rete“, il PDS e tutta la galassia di micro e macro partiti che costituivano i progressisti.
Non erano male le sensazioni, sebbene il confronto televisivo fra Occhetto e Berlusconi avesse fatto suonare più di un campanello d’allarme. L’allora proprietario Fininvest aveva distrutto l’ultimo segretario del PCI facendolo apparire un burocrate del Cremlino, più vicino a Breznev che a Gorbaciov, lontanissimo dai leader occidentali della sinistra, a partire dal Presidente Clinton, allora da poco più di un anno insediatosi alla Casa Bianca.
Andai a votare presto, prima di andare a messa con la nonna, in una scuola elementare a due passi da casa e che sarebbe tuttora il mio seggio se potessi di nuovo essere residente a casa mia.
Ero molto fiducioso e ottimista, come lo può ovviamente essere un ragazzo di ventidue anni che ha tutta la vita davanti, tutte le speranze ancora intatte e tutti i sogni da realizzare. Non potevo assolutamente credere che la maggioranza degli italiani si mostrasse incantata dalle facili promesse dell’amico intimo di Bettino Craxi, indifferente al conflitto di interesse che in tutta l’opinione pubblica mondiale destava scandalo e imbambolata e rincretinita davanti alle star della televisione commerciale del Cavaliere, da Mike Bongiorno a Raimondo Vianello, da Sandra Mondaini a Rita Dalla Chiesa, tutte chiamate a raccolta per la più mediatica delle campagne elettorali che l’Italia avesse mai visto fino ad allora.
Mentre negli Stati Uniti, quasi venti anni prima, Jimmy Carter aveva affidato a un blind trust la sua azienda di noccioline, trovandosi la sorpresina – quattro anni dopo a fine mandato – di una montagna di debiti da risanare, in Italia era perfettamente normale che il più grande editore televisivo nazionale e con un’enorme impero che spaziava in tutti i settori economici del Paese, non soltanto risultasse “eleggibile” ma persino “candidabile“, senza pagare alcun dazio al suo conflitto di interessi.
Cominciò in quella due giorni, allungati dalla Pasqua ebraica che fece sì che le elezioni si tennero in due giorni (usanza poi sempre ripetuta), l’avventura populista di Berlusconi e di Forza Italia e dell’intera nazione.
Oggi venti anni dopo, anche se formalmente l’ex quattro volte Presidente del Consiglio è fuori dal Parlamento per la sua condanna definitiva e l’interdizione dai pubblici uffici, anche se stiamo assistendo al suo declino personale che ovviamente coincide con quello di Forza Italia, suo alter ego fra gli scranni del Parlamento, nonostante la feroce lotta per la successione al trono del sultano, oggi possiamo affermare senza ombra di dubbio che Berlusconi ha vinto.
Non perché Matteo Renzi sia un “Berlusconi” di sinistra ma perché è il Berlusconismo che oggettivamente esce trionfatore da questi venti anni. Il successo personale, e ormai senza alcun vero avversario nel Paese, di Renzi e di Grillo, all’apparenza diversissimi ma accomunati entrambi dal sapientissimo uso dei media e della costante propaganda elettorale, è la plastica dimostrazione di come lo stile che Berlusconi ha portato in Italia, con una campagna elettorale permanente che dura venti anni, politicizzando qualunque competizione – dal condominio alle europee – come se fosse sempre un referendum pro o contro Silvio prima, pro o contro Renzi ora, pro o contro il “sistema” per i grillini, ha ormai avuto ragione su chi – come chi scrive – ritenesse che ci fosse un tempo per tutto e che – finite le elezioni – si potesse passare al “tempo” della riflessione, dell’analisi, della proposta, della Politica.
Dopo venti anni dalla narrazione berlusconiana, dell’imprenditore “self-made“, dall’istituzionalizzazione nei fatti del “conflitto di interessi“, gli italiani ormai si sono non soltanto rassegnati ma forse anche sollevati dal fatto che finalmente non si parlasse più di lotta all’evasione fiscale, non si dibattesse più degli interessi privati contrastanti con quelli pubblici, non si discutesse più di Politica ma solo di propaganda.
Così appare perfettamente normale che un imprenditore come Diego Della Valle, patron della Tod’s e azionista di NTV, la compagnia concorrente di Ferrovie dello Stato, si lasci andare ai più incredibili strali contro il manager dell’azienda concorrente, che anche se avessero qualche fondamento certamente portano in nuce il germe del conflitto e quindi di un attacco non a fini “nobili” di difesa dei consumatori, ma di proprio tornaconto personale.
Gli italiani ormai sono indifferenti a tutto: un quotidiano berlusconiano, sicuramente non proprio avverso all’ex sindaco di Firenze (almeno durante le primarie di coalizione nel 2012 e di partito nel 2013), scopre alcune magagne del neo Presidente del Consiglio su case, residenze e intrallazzi con un imprenditore, Carrai, amico di lunghissima data, senza che né nessuno, nemmeno il logorroico neo Premier chiarisca perché e per come abbia cambiato così tante volte la propria residenza, pur rimanendo sempre sotto lo stesso tetto e secondo la narrazione finora ufficiale sempre devoto e fedele alla propria moglie e alla propria famiglia, quindi senza un’apparente scusa familiare per spostare la propria di residenza.
Ma siccome siamo nel Paese delle residenze fasulle, delle false separazioni per non pagare o pagare poco le rette dei bambini agli asili nido, poiché siamo il Paese nel quale le dichiarazioni dei redditi degli imprenditori sono di gran lunga inferiori a quelle dei dipendenti e che addirittura soltanto lo 0,07% dei contribuenti dichiara più di 300 mila euro di reddito, dato che fa bene comprendere come la leva fiscale su pensioni e stipendi d’oro sia pressoché spuntata per risanare efficacemente le casse dello stato, tutto ciò desta indifferenza alla maggior parte dell’opinione pubblica, incantata più dai fuochi pirotecnici dell’asta delle auto blu che dell’esempio che i nostri governanti dovrebbero dare.
D’altronde abbiamo rinunciato da tempo a volere politici “migliori di noi“, accontentandoci – come spesso scrive Gramellini sulla Stampa – di avere “uno di noi“.
E se Silvio Berlusconi, che per la quantità di denaro a disposizione difficilmente si può ritenere uno di noi, è riuscito a dimostrarsi tale con il sapiente uso dei mezzi di comunicazioni di massa e di un comportamento che – in un paese cattolico come il nostro, sempre indulgente con i vizi privati – è sembrato molto comune, Matteo Renzi ha gioco facile nell’apparire “uno di noi“.
Vuoi per l’innegabile bravura comunicativa, vuoi per la facile presa sulla gente toccando argomenti populisti che suscitano l’indignazione dei più, a cominciare dalla bugia bianca sull’abolizione delle province che tale non è e che comporta pochissimi risparmi, anzi irrisori, in termini di finanza pubblica. Dall’altro lato del campo l’altro esempio di pupulismo, Beppe Grillo, spara ad alzo zero contro tutti e contro tutto, senza uno straccio di proposta.
E con buona pace dell’ex ministro Vincenzo Visco, che come si legge sul Fatto stamattina spiega perché non si parli più di lotta all’evasione fiscale, perché ha un costo – in termini elettorali – di “dieci milioni di voti“, possiamo affermare con concreta ragionevolezza che dopo venti anni da quel 27 marzo 1994, hanno vinto loro: hanno vinto i populismi, ha vinto la propaganda perpetua sul ragionamento, ha vinto la bugia sulla verità, hanno vinto i furbi e gli amanti delle scorciatoie.
Ma soprattutto ha vinto Lui: Silvio Berlusconi, l’uomo che ha plasmato un intero Paese a sua immagine e somiglianza e che ha fatto del proprio stile di vita e della propria condotta pubblica un esempio per alcuni, per lo stile di vita, e un modello per moltissimi altri, per il modo di condurre l’Amministrazione pubblica.
Temevamo di finire come l’Argentina per quanto riguarda il debito pubblico e invece non ci siamo resi conto che dell’Argentina abbiamo importato innanzi tutto il modello politico: il peronismo. Così come in Argentina – passata la sbornia socialista con l’Unión Cívica Radical di Raul Alfonsín dopo la dittatura militare – la competizione elettorale si esprime fra un peronismo di destra e uno di sinistra, anche nel nostro Paese abbiamo scelto la strada sudamericana anziché quella europea. Con l’unica differenza che magari il sostantivo “berlusconismo” non lo si usa ufficialmente, ma lo si realizza nella pratica quotidiana dell’azione politica.
Può andarsi a riposare l’ex Cavaliere: la sua avventura, cominciata quella notte di venti anni fa, quando l’Italia – aiutata anche da Mario Segni e Mino Martinazzoli che scelsero la solita terzietà del centro – decise di affidarsi alle sue cure suadenti, terrorizzata dal mangiabambini Occhetto, ha avuto successo.
Per usare le parole del suo amico Giorgino Bush: Mission Accomplished.
Missione Compiuta.