Timeo Canitiem
Confesso, cari amici, che comincio a preoccuparmi.
Sempre più spesso mi trovo d’accordo con Beppe Severgnini: l’ultima volta è capitato la scorsa settimana quando – ospite di Lilli Gruber – il giornalista e scrittore lombardo sosteneva la necessità delle cosiddette “quote rosa” nelle liste elettorali pur essendo partito da altra posizione.
Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini (Costituzione della Repubblica Italiana – Articolo 51)
Lo stesso è capitato a me: sì, perché se in astratto il fatto di garantire un posto a chiunque soltanto in forza del genere è aberrante, non si può non considerare che la realtà è assai differente da come la descriviamo.
Facciamo un esempio: nell’azienda dove lavora una mia carissima amica, il problema è in realtà “numericamente” opposto. Sono le donne a essere maggioranza e quindi a primo acchito il problema della parità di genere si porrebbe all’incontrario di come siamo soliti affrontarlo.
Il punto è che se si parte dai dati numerici grezzi il problema non lo si comprende.
Nell’azienda in questione, una media società di 300 addetti circa, soltanto il 25% dei ruoli apicali è ricoperto da donne. E la percentuale non si discosta da quella, anzi diminuisce ulteriormente di qualche punto percentuale, nelle posizioni manageriali di secondo livello. Quindi le donne sono concentrate in basso e dunque con salari più bassi e mansioni di meno responsabilità.
Se il data mining, come si direbbe in gergo info-matematico, si svolgesse in maniera più seria e profonda, ci si accorgerebbe che nell’azienda in questione in realtà avviene ciò che succede in qualunque altra azienda italiana e nella maggior parte degli uffici e cioè che anche quando la parità di genere viene garantita in termini numerici e quindi quantitativi, non lo è affatto da un punto di vista qualitativo.
Questo è il primo aspetto da tenere in considerazione.
Il secondo riguarda invece la tanto agognata meritocrazia: nello stucchevole dibattito parlamentare sul tema, abbiamo visto discutibili personaggi asserire che l’inserimento dell’emendamento sulla parità di genere avrebbe comportato un’assenza di valutazione meritocratica. Come se in quel preciso istante, nell’aula di Montecitorio, ciascuno di loro – salvo quei deputati e quelle deputate che si erano sottoposti al vaglio delle elezioni primarie dei loro rispettivi partiti (PD, SEL e M5S) – fosse lì per merito e non per una scelta nominalistica e verticistica all’atto della compilazione delle liste elettorali, oltre che per voti andati più sui capi-coalizione/candidati-premier che alle liste stesse.
Ecco che l’emendamento sulla parità totale di genere aveva un senso proprio per il particolare sistema elettorale sul quale si è concretizzato l’accordo fra Renzi e Berlusconi essendo tale sistema basato – ancora – su listini bloccati che – anche se corti – favoriscono ovviamente il primo nominato di ciascuna lista elettorale.
La vexata quaestio delle quote rosa (detesto tuttavia tale semplificazione giornalistica come se avessimo davanti delle minoranze e non la maggioranza della popolazione!) non può infatti certamente prescindere dal fatto che i “collegi plurinominali“, termine coniato dal segretario del PD durante la conferenza stampa di presentazione dell’accordo, in realtà non esistono e che si tratta sempre di circoscrizioni che sì sono abbastanza piccole ma che comunque comportano circa 5 deputati ivi eletti in media (i deputati da eleggere sul territorio nazionale sono 618 e il numero massimo di “collegi plurinominali” è stato fissato ieri a 120): la vera parità di opportunità è quindi difficile da realizzarsi, almeno rebus sic stantibus.
Dal dibattito di questi giorni alla Camera rimangono due amarezze.
La prima è che Forza Italia, principale artefice con Mara Carfagna di una modifica costituzionale, poi approvata a larghissima maggioranza, che modificò l’articolo 51 “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini“, ieri ha votato contro le condizioni di eguaglianza che l’emendamento proponeva proprio per dare seguito al dettato costituzionale.
La seconda amarezza è che il Partito Democratico non ha preso una posizione unitaria e persino le donne democratiche si sono divise fra chi si è battuto a favore della parità di genere nelle liste e chi invece – più renziane di Renzi stesso – ha preferito bocciare l’emendamento perché esulava dall’accordo fra il loro leader e Silvio Berlusconi, accordo che evidentemente ha molto più valore – per Boschi, Bonafè, Madia, e mi fermo qui perché la memoria non mi assiste – di quanto invece possa essere una legge a più largo respiro.
Se in linea di principio la posizione espressa dal Presidente del Consiglio durante l’intervista televisiva con Fazio è condivisibile, e cioè che il Parlamento è sovrano e che non è con una questione di poltrone che si attua la parità di genere, è altrettanto indubbio – date le circostanze reali del Paese – che forse se l’esempio ogni tanto venisse dall’alto magari poi anche le aziende attuerebbero parità salariale, parità di ingaggi, parità di opportunità. Magari – con l’esempio – si riuscirebbe a poco a poco a minare la piaga del licenziamento in bianco che diventa effettivo una volta manifestatasi una pancetta non in relazione con un’abbuffata bensì con un bambino.
Mi fermo qui nelle considerazioni perché – come promesso – non ho intenzione di intossicarmi con la politica quotidiana: se il PD è appiattito sull’accordo con Berlusconi, se dopo la lezione del 2001 e del 2008 stiamo ancora a discutere se sia meglio il taglio dell’IRPEF o dell’IRAP, se questo filo con l’opposizione condiziona la maggioranza, tutto questo è un problema di Matteo Renzi che si è preso sia una grandissima responsabilità (e di ciò gliene va dato atto e lode) ma ha anche accettato un’incredibile scommessa al tavolo da poker, pur sapendo che insieme a lui sta giocando il principe dei bari e che gli italiani – almeno quelli senza le fette di salame davanti agli occhi – sanno bene chi è e lo giudicheranno quindi anche dall’ampiezza delle concessione che concederà al Cavaliere, concessioni inevitabili quando ci si accorda su qualcosa.
Ora trovandomi – come dicevo all’inizio del post – in posizioni sempre più simili a quelle di Beppe Severgnini comincio a provare qualche timore. Non per diventare di fede nerazzurra, c’è di peggio nella vita e poi una certa propensione alla sconfitta – con la scelta di vita di stare a sinistra – già ce l’ho; non perché sia un conservatore democratico (non mi pare un dramma); ma sicuramente per i miei capelli: se questo progressivo avvicinarmi a Beppe mi porterà a una canizie precoce ciò mi desta un po’ di preoccupazione. Lo ammetto.
p.s. Naturalmente gli italiani con la matita, dentro la cabina elettorale, hanno sempre il potere di votare per un partito che considera le donne persone e chi invece le considera ornamento del proprio harem.
p.p.s. Vedremo il Governo Renzi alla prova delle nomine dei circa 350 manager pubblici: scopriremo se varrà la meritocrazia tanto decantata o se invece la real politik avrà il sopravvento