Patria e Onore?

 In POLITICA

Quando nell’ormai lontano novembre 1998 mi giunse il dispaccio dell’Ufficio Cerimonie della Capitale, un po’ storsi il naso: che palle, pure questa Comandata mi tocca fare.
Essere di comandata non è che fosse chissà quale fatica: solo che anziché mettersi in giacca e cravatta per andare al Ministero della Difesa, dove prestavo servizio militare come Ufficiale di Complemento, avrei dovuto indossare la cosiddetta Grande Uniforme Invernale. Sciarpa, sciabola e Medaglie della Prima Comunione, come ci prendeva in giro un nostro comandante dell’epoca, a noi Guardiamarina di Complemento che appunto – a parte le Medaglie della Prima Comunione – certamente non ne avevamo altre delle quali potersi fregiare.
Così la mattina del IV novembre, Festa delle Forze Armate e Giornata dell’Unita Nazionale, mi alzai presto, uscii dalla caserma dove alloggiavo ben prima delle 8, l’ora dell’alzabandiera, e mi diressi al Ministero dove, intorno alle 8.30, ci avrebbero condotti all’Altare della Patria.
Durante l’attesa della cerimonia si chiacchierava amabilmente, sotto l’azzurro del cielo romano che da lì a poco sarebbe stato decorato con le scie tricolori (speriamo non siano chimiche, così qualcuno non si turba!) delle Frecce. A un certo punto ci fanno cenno di schierarci ai lati del sacello del Milite Ignoto, su due file (con quelli più bassini dietro, ahimè!), mentre dei giganti omerici, i Corazzieri, si disponevano lungo la scalinata del memoriale al primo Re d’Italia.

Tutti i gesti militari sono carichi di forte simbolismo: rappresentano una sorte di liturgia laica per rendere omaggio a coloro che la vita l’hanno persino perduta per la nostra Repubblica, la nostra Democrazia

Qualche istante e il saluto della folla ci fece capire che il corteo delle autorità e del Capo dello Stato fosse giunto. Mentre la banda militare rendeva gli onori a Oscar Luigi Scalfaro, che passava in rassegna la brigata schierata, noi si restava lassù, in attesa del veloce saluto che il Presidente ci avrebbe rivolto (a quelli della prima fila, naturalmente. Noi tappetti …).
Sulle note della Canzone del Piave due enormi Corazzieri portavano la corona d’alloro che il Capo dello Stato avrebbe lasciato sulla tomba dello sconosciuto soldato: il silenzio fuori ordinanza, il passaggio delle Frecce Tricolori, gli squilli di tromba finali che auguravano il riposo eterno ai nostri passati colleghi che si erano sacrificati.
Tutti i gesti militari sono carichi di forte simbolismo, non soltanto patriottico, come molti spesso pensano e per tale ragione snobbano o derubricano a carnevalata la presenza dei nostri soldati. Rappresentano – ovunque nel mondo – una sorte di liturgia laica, non per commemorare le guerre ma per rendere omaggio a coloro che la vita l’hanno persino perduta per la nostra Repubblica, la nostra Democrazia.
Scalfaro passò da noi schierati, ci mettemmo sugli attenti, si intrattenne con qualcuno. Poco dietro, in attesa dei saluti di rito del Presidente, Mancino, Violante e D’Alema (all’epoca presidenti di Senato, Camera e Consiglio dei Ministri) chiacchieravano, godendosi anche loro il tepore del sole autunnale della nostra Capitale.
Terminato i saluti, l’inno di Mameli salutò il Presidente di ritorno al Quirinale e il plotoncino si sciolse.
Per non saper leggere né scrivere, quando si incontrava qualcuno che avrebbe potuto essere importante, rappresentante del popolo, quale un parlamentare, un ministro o un sottosegretario, lo salutavamo militarmente, come ci avevano insegnato in Accademia Navale, nel cortile della quale campeggia una scritta “Patria e Onore“.
Ho ripensato a quella scritta ieri sera quando ho visto i Corazzieri in Grande Uniforme con il Comandante della Guardia Presidenziale salutare militarmente un uomo che al Quirinale non avrebbe dovuto metterci nemmeno l’alluce del piede, se avesse veramente avuto a cuore la Patria e tenesse seriamente al suo onore e a quello del suo Paese, quello che in una famosa videocassetta asseriva di amare.
E al di là dell’istintiva battuta, “anche i carcerati hanno diritto a un loro rappresentante“, ho pensato a quei tre militari, che sugli attenti e in perfetto stile rendevano gli onori a un uomo che ha infangato con la sua opera e con la sua immoralità la nostra Repubblica e che ancora, per responsabilità diretta di circa sette milioni di nostri connazionali, le Istituzioni sono costrette ad ascoltarlo, come in un eterno reality show dove non si riesca a cacciarlo a pedate nel sedere.
E mi sembrava di rivedere quella scritta, sulla facciata principale della mia Accademia, ammonirci a servire il nostro Paese con onore.
Ma lo sappiamo ancora cosa voglia dire la parola onore?

 

p.s. So bene che la realpolitik ha imposto a Renzi di dialogare e di accordarsi con Berlusconi. Tuttavia non posso fare a meno di pensare che forse una modalità alternativa a renderlo di nuovo padre della patria poteva persino esserci. Magari aspettando il 10 aprile quando il Tribunale di Milano dirà finalmente come questo sedicente statista dovrà scontare la propria pena. Comprendo che il tempo non giocasse a favore del Segretario Nazionale del PD, ma a volta la pazienza è una di quelle virtù da dover coltivare meglio.

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