Crisi e opportunità

 In POLITICA

Si dice che ogni crisi in realtà celi dietro un’opportunità.
Ora è evidente che la maggioranza numerica di questo Parlamento (cioè non la “maggioranza politica” ma proprio letteralmente il maggior numero di parlamentari) non abbia di certo voglia di tornare alle loro precedenti attività, a dispetto di quello che “ufficialmente” devono dichiarare ai microfoni dei giornalisti, per dovere di parte.
Nessuno – salvo forse i senatori a vita ovviamente – ha voglia di lasciare lo scranno che hanno ricevuto in dote lo scorso anno: non la cosiddetta maggioranza del gruppo parlamentare del PD, minoranza congressuale, che in caso di primarie interne dovrà sudare le proverbiali sette camicie per poter spuntare qualche posto nel nuovo Italicum (se mai si approverà) o nel caso di elezioni con la legge vigente impegnarsi in una campagna elettorale dispendiosissima – in termini economici e di fatica – per recuperare le preferenze necessarie ad essere eletti (le circoscrizioni sono abbastanza vaste).
Non di certo la nuova maggioranza democratica, con Renzi in testa, che sa bene che senza una nuova legge elettorale la formazione di un governo è un terno al lotto. E soprattutto con sondaggi che non sono di semplice decifrazione, con un grosso rischio di vittoria al primo turno dell’armata brancaleone attorno a Berlusconi.
Non la stragrande maggioranza dei gruppi di Forza Italia che sanno bene che – senza il traino di un maggioritario con Berlusconi – il loro posto scricchiola. Non al leader di Forza Italia che fra tre mesi non potrà più muoversi come più gli piace, per l’esecuzione della condanna penale: una campagna elettorale senza libertà di movimento non è possibile.
Non i dissidenti pentastellati, che non avranno di certo più spazio nel Movimento Cinque Stelle e sicuramente alla fine della Legislatura potranno soltanto raccontare ai nipoti di quando erano chiamati “onorevoli”.
Non coloro che furono centristi.
Nessuno del Parlamento attuale ha un vero interesse a tornare al voto con questa legge elettorale, sebbene più l’immobilismo continua più si alzano queste probabilità.
Per tale ragione tutti hanno voglia di rimanere al loro posto: tutte queste minoranze, de iure e de facto verrebbe da dire, però non possono di certo garantire un proseguo dell’azione di governo di Enrico Letta facendo finta che l’8 dicembre non sia successo nulla.
Il congresso democratico, culminato con la vittoria alle primarie di Matteo Renzi, qualunque cosa si pensi sul segretario PD e il suo programma, ha ovviamente destabilizzato l’intero sistema politico. Innanzi tutto perché il Presidente del Consiglio, al quale bisogna dare il merito all’inizio di ottobre di aver ottenuto lo scalpo di Berlusconi con una fredda fermezza, si è adagiato su una maggioranza numerica, senza accorgersi (o se n’era accorto, chi lo sa!) di essersi impantanato.
Non ha voluto partecipare né attivamente né passivamente alle primarie, ha voluto tenere un profilo terzo, scelta ovviamente rispettabile ma che aveva come ovvia conseguenza quella di dover cedere il passo a chi aveva tutto da guadagnare da una crisi di governo e da una maggiore polarizzazione della politica.
Poi in mezzo c’è stata la sentenza della Consulta che ha tagliato l’arma principale di Renzi, e cioè le nuove elezioni politiche con la sua probabile vittoria grazie al Porcellum.
Per questa ragione, l’attenzione del segretario del PD, si è subito spostata sulla legge elettorale proponendo prima ai Cinque Stelle un accordo, poi – al loro rifiuto – ha fatto l’intesa con Berlusconi. Comunque la si giudichi, qualunque reazione si sia avuta alla vista di Berlusconi che varca il portone del Nazareno, alla “profonda sintonia” e al senso di “gratitudine” espressi da Renzi al capo di Forza Italia, dobbiamo ammettere che quello è stato un colpo di genio che ha messo nell’angolo il governo da un lato e le minoranze dall’altro, che con la nuova legge elettorale verrebbero messe fuori.
Il punto è che questo governo di strette intese, così come qualunque altro governo in questa legislatura, non può prescidere dalle minoranze, di centro, di destra o di stelline pentite: così Matteo Renzi è stato messo di fronte a una scelta, cioè assumersi la propria e diretta responsabilità, dopo aver giocato tutta la partita delle primarie (e forse anche quella del Quirinale e del dopo elezioni) più come membro dell’opposizione che come iscritto al PD.
I miei più assidui lettori ricorderanno questo pezzo del 7 gennaio nel quale mi rivedevo nelle posizioni di Scelta Civica, culminate poi ieri con la richiesta di dimissioni di Letta.
È chiaro che non era minimamente pensabile che il Sindaco di Firenze – ambizioso com’è – si mettesse in un angolino a fare proposte di legge senza poterle controllare di persona, dato che non siede in Parlamento. Poi fra un po’ sarebbe persino impegnatissimo nella campagna elettorale per la sua città e difficilmente troverebbe il tempo per seguire efficacemente l’attuazione delle scelte del partito in Parlamento.
C’è anche una considerazione da fare: Renzi nel 2012 ha sfidato Bersani sulla candidatura alla premiership, mica per fare il segretario del PD e basta. Che Renzi voglia Palazzo Chigi lo sappiamo da tanto tempo, lo scriviamo ormai da anni e persino lo scorso anno (dopo la debacle delle presidenziali) aveva dato la sua disponibilità a guidare il governo – senza che nessuno si fosse turbato più di tanto, stoppato proprio da Berlusconi che infatti anche in questi giorni non lo vorrebbe di certo a Palazzo Chigi.
Ci sarebbe da chiedersi: “come mai Berlusconi non vuole Renzi al Governo?“.
Ipotizzo qualche risposta.
Innanzi tutto perché è troppo più giovane di lui e per quanto le sue figlie portino il suo cognome è impossibile che siano come il Cavaliere in campagna elettorale (sarebbe dura per Renzi giocarsela con un Berlusconi giovane, che si giochi la carta dell’imprenditore di successo. Ma Marina e Barbara non sono Silvio).
Poi c’è un fattore da non trascurare: la crisi economica prima o poi passerà, come sempre.
E se a Palazzo Chigi ci fosse Matteo Renzi a capitalizzarla, per il centrodestra di Berlusconi potrebbe essere ardua.
Naturalmente il sindaco di Firenze conosce bene i rischi di questa operazione che potrebbe portarlo alla guida del Governo. Innanzi tutto perché tutti stanno paragonando questa ipotetica “staffetta” con quella fra Prodi e D’Alema del 1998.
Ora a parte il fatto che anche quella – di staffetta – sanava un’anomalia tutta italiana che il leader del partito di maggioranza non guidasse il governo, c’è un aspetto che distingue Renzi da D’Alema ed è che il primo ha vinto le primarie, mentre il secondo era il segretario del PDS, eletto dalla direzione del partito dopo la conta con Veltroni (si ricorderà il famoso popolo dei fax che invece incoronò Walter).
Il bagno popolare, quindi, Matteo l’ha avuto e per ben due volte, con la partecipazione alle due primarie. Ovviamente, per chi – come me – ama sistemi politici semplici, se Matteo Renzi va al governo avvicina il nostro sistema parlamentare più a quello britannico che all’ibrido che abbiamo realizzato. E questo per me è un bene, perché – come scrissi in un commento al pezzo citato – pur trovandolo inadeguato a guidare il Paese preferirei Matteo Renzi al Quirinale, eletto direttamente in un sistema presidenziale equilibrato, piuttosto che al Governo in un sistema ibrido, con un’indicazione diretta del Presidente del Consiglio che non sarebbe nemmeno Primo Ministro costituzionalmente parlando ma con un’investitura – di fatto – popolare.
Mi rendo conto però che per Renzi, con un’opinione pubblica che vedrebbe questa come un’operazione di palazzo e con questa retorica insopportabile sul lavacro elettorale, alimentata anche dallo stesso Renzi (che da candidato qualche venatura populista l’ha sempre avuta), la scelta sia molto complicata.
In attesa della conferenza stampa di Letta e della direzione del partito di domani, possiamo azzardare due ipotesi: crisi di governo e rimpastone, con Letta che guida un esecutivo a trazione renziana, quindi con ministri di peso (Economia, Lavoro, Sviluppo Economico, Giustizia, Interno) espressione della nuova maggioranza democratica; oppure – come forse sarebbe anche meglio – Matteo Renzi direttamente alla guida con un governo che cerchi anche l’appoggio dei dissidenti grillini al Senato, in pratica l’idea di Bersani un anno dopo.
Personalmente spero che accada la seconda, perché credo sia giusto che Renzi – oltre a proporre – abbia anche il diritto di provarci a cambiare l’Italia e quella parte del Paese che non l’appoggia o non si fida, ha il dovere di concedere – a colui che viene descritto come il cambiamento o l’ultima spiaggia – la sua chance, controllando che poi sia bravo come ha detto di essere in campagna elettorale.
Valuteremo dopo, se ci sarà il Renzi I, la sua lista dei ministri: vedremo se veramente alcuni imprenditori entreranno al governo e come risolveranno il loro conflitto di interessi.
Quello che mi auguro è che tra stasera (con la conferenza stampa di Letta) e domani (con la direzione del Partito Democratico) finalmente si sciolga questo dubbio, termini questo infinito congresso democratico e si abbia in sella un governo decente, coeso e con punti programmatici pochi ma chiari. Perché anche da una forte e grave crisi politica si possono avere delle opportunità: se questa fosse Matteo Renzi, con la sua vulcanica personalità e la forza della sua novità, quella che può cambiare il Paese possiamo saperlo soltanto provandolo fino in fondo, senza aspettare per forza le elezioni politiche generali.
E se persino io dovessi ricredermi potrei addirittura votarlo alle prossime primarie.

p.s. Augusto Minzolini ha detto una cosa interessante poco fa e che questa diatriba fra Renzi e Letta assomiglia tanto alle vecchie vicende della DC. È vero. Quando si celebrava un congresso della Balena Bianca, in realtà si decidevano gli assetti governativi, per effetto della conventio ad excludendum dei comunisti dal potere esecutivo. Questa vicenda tutta interna al PD ricorda proprio quel periodo, che spesso si risolveva spedendo il premier uscente alla Farnesina, all’epoca il posto più ambito. Oggi ci sono anche le istituzioni europee e sovranazionali dove sicuramente Enrico Letta potrebbe servire il Paese. Tutto sta a come si propongono le cose. Se Renzi lo fa con garbo, forse Letta fa il passo di lato. Altrimenti se entrambi si intestardiscono e si va alla conta in Parlamento (come fece Prodi nel 1998) temo che sarà difficile rimettere a posto i cocci.

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