La cambiale che #Roma dovrà pagare
Circa nove anni fa di questi tempi, sul finire del mese di gennaio, partecipai a un convegno organizzato dall’ambasciata svedese in Italia sulle nuove tecnologie mobili e le possibili applicazioni in campi che in Italia ancora erano – e per certi versi sono ancora – inesplorati.
Fu un convegno molto bello, accompagnato da una di quelle giornate di sole nelle quali ti innamori del cielo di Roma, dove gli svedesi presentarono alcuni prodotti molto interessanti. C’era una piccola impresa che aveva messo a punto un device per monitorare costantemente l’attività cardiaca dei pazienti ed era stato inventato da un signore che aveva avuto la moglie gravemente malata e che – per allungarle la vita – aveva messo a punto questo coso.
Un altro interessante progetto riguardava la mobilità sostenibile e la realizzazione di campus di ricerca, quelli attorno alle imprese che fanno ricerca e sviluppo nei dintorni di Stoccolma, dove vi fossero parchi, cinema, biblioteche, ristoranti e bar, centri sportivi, luoghi di ritrovo: «perché» – disse il relatore di quell’intervento – «dobbiamo pensare anche alla qualità della vita dei nostri ricercatori e degli addetti a queste aziende. Dobbiamo dar loro appartamenti vivibili e quartieri dove possano trascorrere le giornate con le loro famiglie». Le slide sul progetto, già parzialmente avviato, lasciavano senza fiato e ti veniva voglia di salire sul primo aereo per Stoccolma con un biglietto di sola andata.
Dopo la pausa pranzo uscimmo a fumare con alcune persone. Il tepore del sole invernale della nostra Capitale era meraviglioso: si stava senza cappotto, soltanto con la giacca e ci si godeva quell’intervallo così particolarmente cordiale per un periodo dell’anno nel quale freddo e gelo sarebbero la norma.
Un alto e ben pagato dirigente di un’azienda pubblica, sentendo parlare alcuni ospiti, estasiati dal progresso scientifico, sociale e tecnologico di quella nazione, osservò – ridendo compiaciuto – che in Svezia avrebbero pure potuto avere i campus per le famiglie e le mogli che non sarebbero morte d’infarto grazie alla tecnologia mobile, ma il sole così caldo in inverno se lo sarebbero potuti di certo soltanto sognare.
Tornai al convegno con un sensazione di estremo ridicolo per quell’uomo, assai venerato da molti perché era un bravo manager, che non si rendeva però conto che anche lui era espressione di questo nostro provincialismo che sta condannando il Belpaese all’inevitabile declino.
Mi è tornato in mente questo episodio ieri mattina, lunedì 3 febbraio, primo giorno lavorativo dopo la bomba d’acqua che si è abbattuta su Roma. Negli otto chilometri che percorro ormai obbligatoriamente in moto (con la pioggia, il vento o il gelo non importa perché il trasporto pubblico ormai è impossibile da prendere dalle zone periferiche) oltre al consueto zig-zag per evitare i comportamenti più beceri degli automobilisti romani – sempre pronti a insultare chi tarda un picosecondo al semaforo ma capaci di infrangere tutti gli articoli del codice della strada in mezzo secondo – si è aggiunto non la solita “caccia alla buca” alla quale siamo comunque abituati tanto da guidare come sulla Tre-Tre di Madonna di Campiglio, ma proprio un vero e proprio percorso di addestramento militare degno del Corpo dei Marines!
A bordo di moto, scooter e bici noi bipedi del mattino abbiamo avuto il privilegio di osservare da vicino – molto vicino – i danni che settanta e passa anni di cattiva amministrazione ci hanno regalato: voragini in mezzo alle corsie, tombini che sputavano fuori tanta di quella acqua che sembravano sorgenti di montagna, scie di terriccio rimaste ai bordi delle corsie, potenziali pericoli mortali per chi viaggia su due ruote.
Ripensavo ieri al settembre del 2007, quando in viaggio verso il New England, mia moglie e io lasciammo la bella casa dei nostri amici nell’Upstate di New York, in mattinata, per metterci in viaggio sulla Interstate 84 verso lo stato del Connecticut per poi raggiungere la costa e quindi Boston.
Nei dintorni delle principali arterie autostradali, i piccoli comuni che circondano la Grande Mela, stavano già facendo la manutenzione ordinaria delle strade, sostituendo il manto stradale con quello nuovo, altissimo, in grado di reggere le nevicate che da lì a qualche mese sarebbero potute arrivare (solamente per i TG e i giornali italiani le grandi nevicate nella Costa Est degli Stati Uniti sono una “novità” annuale anziché essere la norma!).
Nel nostro Paese, benedetto dal Padre Eterno, che non ha a che fare con sistematiche nevicate al mare, uragani, tornado e chi più ne ha più ne mette, sarebbe giochetto da ragazzi, per le amministrazioni pubbliche, fare la manutenzione ordinaria delle piccole cose, anziché aspettare il dio Giove che con i suoi fulmini e le sue saette scateni l’inferno d’acqua dal cielo.
Il Sindaco della Capitale ha dichiarato che la pulizia dei tombini è stata regolarmente effettuata. Sarà, eppure il quantitativo di foglie secche che c’è sempre per le strade della nostra Urbe è incredibile. Possibile che nessuno negli uffici dell’amministrazione capitolina abbia fatto caso che – a dispetto del calendario – nella città di Roma l’autunno non coincida proprio esattamente con il 21 settembre ma si presenti almeno due mesi dopo? Possibile che nel mese di dicembre, dopo un piacevolissimo autunno, non si sia posto nessuno il problema che forse – prima o poi – quelle foglie sarebbero cadute?
E perché ogni volta che ci sono cantieri stradali le strade vengono riparate e non riasfaltate?
Sta di fatto che ieri – per lo stesso percorso che faccio io e per il quale ho impiegato più di mezz’ora in moto (velocità media quindi abbondantemente sotto i 16 chilometri orari, come qualunque bambino di quarta elementare riuscirà a calcolare!) – ci sono stati dei cittadini che hanno impiegato un’ora e venti minuti, alla velocità media quindi di circa 6 chilometri orari … quasi a passo d’uomo!
Una città divenuta laguna nelle sue zone periferiche e trasformata in una sorta di percorso di moto cross nelle sue zone centrali: soltanto per una pioggia torrenziale.
Naturalmente Ignazio Marino non ha altra responsabilità di quella che chiunque possa avere nel rivestire la carica di sindaco da poco più di sei mesi: non molta. Ma la responsabilità è soprattutto di noi, cittadini romani di nascita o di adozione, che pensiamo che basti quel meraviglioso sole d’inverno, che quando esce ti sembra risolva tutti i nostri problemi, per fare della Città Eterna la più bella città del mondo. Non è così.
Lo è certamente la più bella, Roma, ma ormai soltanto per il peso della sua storia, che continuando di questo passo rischiamo seriamente di compromettere. Dove non sono riusciti tremila anni di sacchi e di barbari rischiamo di riuscirci noi, abitanti dell’Urbe in un tempo in cui il progresso tecnologico, che in altri paesi significherebbe maggiore qualità della vita, ci consentirebbe di salvare il più vasto patrimonio culturale e storico dell’umanità e persino qualche insignificante vita umana, di quei bipedi a motore o a pedale che ogni giorni rischiano la vita per portare il pane a casa, tra un lago artificiale nato nel weekend e una voragine scavata non da un asteroide ma dalla stupidità umana, di chi preferisce rattoppare anziché costruire.
E prima o poi, mentre gli svedesi si rattristeranno, perché uscendo dall’ufficio dovranno spendere ben cinque minuti per tornare a casa e non potranno socializzare fra un semaforo e l’altro, noi abitanti della Capitale d’Italia e di questo Stivale sempre più stretto, pagheremo – e cara – la cambiale per la nostra stoltezza.
E posso persino scommettere che quella figura apicale – così sfottente nei confronti degli scandinavi senza sole in inverno – sia fra coloro che imprecano oggi contro l’Amministrazione Capitolina per la bomba d’acqua: come se ciascuna amministrazione, ciascun burocrate comunale, qualunque cittadino di questa città non abbia preferito scommettere per la gallina oggi anziché pazientare e godersi un sano ovetto domani.