L’#italicum e il P. (Q.) D., Partito (Quasi) Democratico

 In POLITICA

Facciamo un giochino.

Supponiamo che si vada a votare con il Paraculum, la legge elettorale che nei media viene chiamato Italicum, così come l’hanno partorita al Nazareno il duo Berlusconi-Renzi. Facciamo anche finta che il PD si coalizzi soltanto con il partito di Nichi Vendola (non ci credo, penso che il PD di Renzi andrà da solo). Supponiamo inoltre che il Partito del Presidente della Regione Puglia riesca a spuntare su scala nazionale lo stesso 3,20% che prese nel febbraio dello scorso anno e che soltanto grazie a questi voti la coalizione di centrosinistra riesca a superare la fatidica soglia del 35% (o del 38% secondo gli ultimi aggiornamenti da Montecitorio) e possa quindi accedere al premio di maggioranza, senza sottoporsi al secondo turno di ballottaggio.

Tutti i telegiornali celebreranno il vincitore delle elezioni, Don Matteo (copyright prima pagina di oggi del Manifesto!), e trascureranno un piccolissimo particolare (uno di quelli che “rischierebbero di mandare a monte la riforma epocale che aspettiamo da trenta anni“, come afferma appunto il supremo segretario del PD, il quale ha invitato le forze politiche parlamentari a non esagerare con gli emendamenti allo storico accordo con il Caimano).

Quale sarebbe il particolare? Che mentre in forza del Paraculum il Partito Democratico si beccherebbe il premio di maggioranza e finalmente potrebbe governare da solo, senza mediare con nessuna altra forza politica, il partito di Vendola, determinante per ottenere lo stesso premio, non otterrebbe nessun seggio perché molto lontano dalla soglia prevista del 5%.

A Roma si adopererebbe un’espressione omofoba molto scurrile, che qui si preferisce non riportare, per commentare questo aspetto della legge elettorale.

È soltanto uno – dei piccoli particolari – di una legge che avrebbe in nuce un grande pregio, quello di cercare di coniugare governabilità e rappresentatività, i due aspetti fondamentali di una democrazia, e che invece – per uno scellerato accordo fra Partito Democratico e Forza Italia – non può nemmeno essere discussa ed emendata in Parlamento. Altrimenti salta tutto, dicono i due contraenti!

Poco importa che il premio di maggioranza sia abnorme, come già ho commentato qui.

Poco importa che le circoscrizioni – seppur piccole – non consentono una vera selezione dal basso della nostra classe dirigente.

Poco importa che il Collegio Unico Nazionale sposti la campagna elettorale dai territori – dove forse sarebbe interessante tornare – a una battaglia fra leader nazionali e quindi – di fatto – a un’elezione quasi diretta del Governo, con tutte le conseguenze che qui ho menzionato.

E che dire dell’alternanza di genere che come è scritta non ha proprio senso, dato che nessun vincolo è dato per i capilista, gli unici sicuri seggi nel caso questi scattassero dopo le elezioni?

Per chi fosse interessato a questo altro piccolissimo particolare invito a leggere il post di Irene Tinagli, una di quelle personalità che il Partito Democratico ha deciso di lasciar perdere non si sa poi per quale ragione:

 

 

Ci sarebbero anche altri punti su cui ragionare, come i collegi plurinominali (va bene dire “no” alle preferenze, ma raddoppiare almeno i collegi per farli di due al massimo tre nominati non sarebbe meglio?), come il diritto di tribuna per chi non ottiene seggi, come il diritto dei partiti territoriali (pensate se al posto della Lega Nord ci fosse stato un partito come la CSU bavarese!) ad essere rappresentati nella Camera Bassa del nostro Paese, come conciliare la legge elettorale per il Senato (non crederete all’utopia della Riforma Costituzionale?) con le rigide prescrizioni della Costituzione (art. 57):

“Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero.
Il numero dei senatori elettivi è di trecentoquindici, sei dei quali eletti nella circoscrizione Estero.
Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a sette; il Molise ne ha due, la Valle d’Aosta uno.
La ripartizione dei seggi fra le Regioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, si effettua in proporzione alla popolazione delle Regioni, quale risulta dall’ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti”

con la ratio del Paraculum che vuole assicurare la governabilità (quindi voto di fiducia, a Costituzione vigente, da entrambi i rami del Parlamento).

Ma di tutto questo non si può più discutere altrimenti salta l’accordo complessivo fra Renzi e Berlusconi, accordo che prevede l’abolizione del Senato elettivo e la riforma del Titolo V.
E se della riforma del Titolo V non sappiamo praticamente nulla (dobbiamo aspettare il 15 febbraio per la presentazione del disegno di legge costituzionale), l’abolizione del nostro potere sovrano, di eleggere i senatori, non è stata ancora spiegata e nulla si conosce di quali effetti produca in termini di organismi di controllo, i famosi contrappesi (Quirinale, Consulta, Commissioni di Vigilanza e Controllo, Statuto delle Opposizioni, Nomine delle Autorità Indipendenti, Nomina del Governatore della Banca d’Italia).
Però non possiamo disturbare i manovratori, Silvio e Matteo, perché si sono accordati alla luce del sole, sebbene non ci sia né un verbale né uno streaming che ci racconti cos’altro si siano detti in quella sede, interrogativo che si è posto anche Lucia Annunziata.

Aspettiamo fiduciosi di poter andare a votare e poter finalmente testare sul campo la nostra malafede.

p.s. Leggo che D’Alimonte replica a Sartori dicendo che l’Italicum consente di eleggere chi governa. Peccato che le elezioni servano al rinnovo delle Camere e non all’elezione del Governo.
p.p.s. Un po’ scorretto Roberto Giachetti con il suo videoblob che ritrae Violante, Bersani e Finocchiaro scagliarsi contro il voto di preferenza. La vecchia maggioranza PD ha sempre sostenuto i collegi uninominali, con doppio turno e primarie per scegliere il candidato, peraltro uno dei sistemi più semplici e più razionali che consentirebbero rappresentatività, scelta del cittadino, rapporto con il territorio e che soltanto nel caso in cui non ci fosse una maggioranza parlamentare costringerebbe alle coalizione. Perché in un sistema parlamentare anche il pareggio andrebbe messo in conto, come accaduto persino nella patria del bipartitismo, il Regno Unito, dove alle scorse elezioni né Conservatori né Laburisti ottennero la maggioranza assoluta ai Comuni e David Cameron, leader del partito di maggioranza relativa ha dovuto siglare un accordo di coalizione con i liberaldemocratici di Nick Clegg. Si chiama democrazia e sembra purtroppo che nel nostro Paese sia ancora un concetto estraneo. In un’era in cui si cambiano i nomi ai partiti per mascherare la propria incapacità politica, sarebbe opportuno che anche il PD lo cambiasse e aggiungesse una “Q”. Non basta essere democratici al proprio interno: bisogna anche pretenderlo all’esterno.

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