Padri contro Figli

 In LIBRI, POLITICA

Voto di Scontro - Giovanni e Niccolò ValentiniNelle tre ore in attesa di rimettere piede sul suolo natio, fra la saletta del gate 2 a Fiumicino e lo scomodissimo sedile dell’Airbus 320 a livrea AirOne che mi riportava a Catania, ho letteralmente divorato un libro che non è semplicemente un dialogo fra un padre e un figlio su diverse posizioni dei due in politica, ma è proprio lo scontro non generazionale ma culturale fra due tipi di impostazione della vita pubblica e del modo di osservare ciò che è pubblico.

Il libro in questione è stato scritto da Giovanni e da Niccolò Valentini, ha una bellissima prefazione di Stefano Rodotà e si intitola “Voto di Scontro“, suggestiva perifrasi per identificare lo scontro vissuto fra il padre e il figlio durante la dura campagna elettorale di febbraio. È uno scritto molto interessante per chi come me parla spesso e volentieri di politica ma mi ha lasciato molto turbato in quanto mi ritrovavo molto di più nelle posizioni del padre sessantacinquenne, Giovanni, piuttosto che in quelle del figlio trentatreenne, Niccolò.

Mi corre naturalmente l’obbligo di ricordare, a chi legge, che il sottoscritto divora quasi quotidianamente la Repubblica da quando – ancora studente liceale – si cominciò a interessare di politica. Il suo inserto culturale Mercurio era un mio personale must del sabato mattina e ne conservai molte copie fino a quando decisi che fosse ora di liberare spazio in soffitta, considerando che prima o poi gli archivi sarebbero stati tutti digitalizzati.

Non conosco personalmente Giovanni Valentini, pur seguendoci reciprocamente su Twitter e leggendolo soprattutto nel fine settimana quando tiene la sua rubrica “Il sabato del villaggio“, nelle pagine dei commenti del quotidiano diretto da Ezio Mauro. Ne ho condiviso le grandi battaglie sulla libertà di informazione e sul conflitto di interessi che nel corso di questi anni lo hanno visto tra i principali e autorevoli commentatori del nostro mondo dell’informazione. Di contro, quando vidi l’editorialista di Repubblica presentare il libro durante una trasmissione televisiva, mi incuriosì il fatto che con il figlio Niccolò io avessi in comune gli studi superiori, anche se a distanza di circa dieci anni: avevo voglia di comprendere come mai l’ingegner Valentini avesse sposato la causa grillina dalla prima ora. Su questo blog, qualche giorno fa, commentando il discorso di investitura di Matteo Renzi a nuovo segretario del Partito Democratico, scrissi questo post. La cosa che mi colpì molto del sindaco fiorentino fu che per quelli della sua generazione la parola “politica” fosse una parolaccia e sul mio profilo Facebook mia sorella, di poco più giovane di Renzi, me ne diede proprio conferma. Tre anni di differenza e un abisso generazionale, mi sembrava di avvertire con il neo segretario del PD.

Con Valentini junior invece il discorso diventa ancora più esasperato: mentre il padre cerca di comprendere non soltanto quali siano le ragioni della militanza del figlio nelle attività del Movimento, ma soprattutto se egli veda gli stessi suoi interrogativi su Grillo, Niccolò teorizza la necessità del totale annientamento dello status quo per poi ricostruire.

Demolire per ricostruire.

E come nelle famigerate guerre chirurgiche, se l’effetto collaterale è l’attacco alla libertà di stampa, di informazione, e quindi – aggiungo io – in generale alla libertà individuale di avere un’opinione contrastante con il Movimento Cinque Stelle, allora bisogna portare pazienza: si tratta insomma – questa è la sensazione che rimane – di un danno collaterale ma indispensabile per ricostruire il nostro Paese.

Mentre il padre si sforza di comprendere e di ragionare, mentre si pone i dubbi che in qualunque contesto filosofico sono il sale della riflessione, Niccolò si disegna – e per certi versi ne rivendica persino l’appartenenza – come un adepto a una setta, orgogliosamente fanatico di un certo modo di concepire la lotta politica in Italia.

Se Giovanni, da libero pensatore di sinistra, non fa nessuno sconto alla sinistra italiana, nelle sue mille e autolesionistiche sfaccettature, Niccolò risponde con una sorta di adesione fideistica al Movimento, incurante delle osservazioni – anche evidentissime – che il padre gli sbatte in faccia sulla totale assenza di democraticità in quel gruppo politico. In nome di una presunta onestà e purezza originale, abbastanza ovvia non avendo mai avuto l’occasione di rubare ma da loro intesa come dogmatica, nemmeno fosse la Concezione Immacolata di Maria per i cattolici, Niccolò Valentini ripete come un mantra tutto ciò che nel corso di questi anni abbiamo ascoltato con i megafoni ma che è stato poi contraddetto dai fatti. A partire dal famosissimo slogan “uno vale uno” come se in realtà non si fosse già abbastanza e sufficientemente verificato che Grillo e Casaleggio comandano più di tutti; come se non fosse ovvio, scontato e persino insultante verso chi prova a spiegare la contraddizione, che non è assolutamente vero che non esiste un gruppo dirigente pentastellato e che la Casaleggio Associati insieme al volto di Beppe Grillo determinano la politica parlamentare ed elettorale del Movimento Cinque Stelle. Non mi sembra infatti che sul blog, sede ufficiale del Movimento secondo il non statuto, possa scrivere chiunque, qualunque attivista, ma soltanto coloro che qualcuno, nel back office del blog, abbia stabilito possa farlo. D’altronde così è per qualunque blog, come a suo tempo ironicamente scrissi su queste pagine.

Abbiamo più volte visto, osservato e commentato sbigottiti, le epurazioni a opera di Grillo di dissidenti. E se nel libro sono menzionati quelli più eclatanti dei parlamentari pentastellati, come non ricordare l’insulto sessista e il conseguente diniego dell’utilizzo del simbolo a Federica Salsi, rea di aver partecipato a Ballarò?

Simbolo proprietà di un privato, non di un partito, peraltro.

Osserverebbe Valentini junior, che se c’è una regola – quella di non andare ai Talk Show – allora va rispettata. D’altronde, a suo tempo, lo stesso Marco Travaglio teorizzò proprio la correttezza formale della decisione di Grillo. Ma perché l’insulto sessista? Perché quel riferimento al punto G della consigliera bolognese?

Qui si apre un punto assai dolente ed è il rapporto con il mondo dell’informazione: per Niccolò sono tutti pennivendoli, tutti (a volte hai la sensazione che parli persino del padre, salvando forse la generazione precedente, quella del nonno) tranne – probabilmente – i giornalisti del Fatto Quotidiano, con le due firme di punta Scanzi e Travaglio sempre indulgenti e relativisti, qualunque corbelleria possa uscire dalla bocca del guru o del comico. Se il primo  almeno prova a essere indipendente (ama distinguere infatti fra Grillo e i gruppi parlamentari), Marco Travaglio è totalmente schierato, appiattito, su qualunque posizione di Grillo e del Movimento Cinque Stelle. E se proprio non può esimersi dal criticarlo, come accaduto con la gogna verso Oppo e Merlo, il vice direttore del Fatto dà un buffettino nella guancia barbuta dell’amico genovese mentre si lancia con i soliti strali nei confronti dei supposti nemici del nuovo partito del popolo, a cominciare dal Capo dello Stato.

Questa posizione sui pennivendoli, e su tutti coloro che in generale critichiamo il movimento, è rivendicata da Niccolò, il quale appare come stregato da qualunque cosa Beppe Grillo possa dire o affermare. Risulta quindi complicato, persino per il padre, avere un dialogo fra pari di fronte all’insulto – pennivendolo, venduto, servo – che dal Movimento subito si alza: ed è questa la grande distanza che io – da quarantenne – avverto nei confronti del mio quasi coetaneo e collega di studi Niccolò Valentini. Sebbene suo padre abbia quasi la stessa età del mio, con il quale i miei scontri sulla politica li ho anche avuti, mi sono riconosciuto quasi integralmente nelle posizioni e nei dubbi che l’editorialista di Repubblica si è posto davanti al fenomeno pentastellato.

Turba – e non molto – che un uomo di trentatré anni affermi che egli si “rassereni” dopo aver ascoltato uno spezzone di Grillo; inquieta – e tanto – che un uomo non ignorante e che ha vissuto in una famiglia di grande cultura come la famiglia Valentini non riesca a non rendersi conto della deriva dell’uomo forte che il suo Movimento sta inevitabilmente perseguendo, con una cultura personalistica più vicina al Fascismo di quanto loro stessi non riescano ad ammettere. Ne scrissi moltissimo durante la scorsa primavera, tanto che diventò una parte notevole del mio saggio. Nel post De Bello Grillico scrissi proprio come il Movimento, nato dalle cinque istanze sicuramente lodevoli indicate poi dalle cinque stelle, comprendesse tre tipi di elettorati molto distanti fra loro: sono convinto che del 25% ottenuto a febbraio, con quasi nove milioni di voti, probabilmente oggi un terzo verrebbe perduto. Sono i voti di coloro che – da sinistra – hanno voluto dare una lezione all’establishment del Partito Democratico, a una certa classe dirigente, rea – anche a ragione – di non aver affrontato e sconfitto Berlusconi. Ma è quel terzo di voti che però è ben cosciente di cosa significhi la deriva populista, la contestazione fine a se stessa, il voler denunciare come spreco tutto ciò che è pubblico.

Rimane la sensazione – anche leggendo lo sfogo finale di Niccolò – che invece i due terzi, lo zoccolo duro del Movimento, sia destinato invece a irrobustirsi sempre di più, arroccandosi su posizioni chiaramente autoritarie. La deriva autoritaria, le posizione effettivamente di destra del Movimento Cinque Stelle, spesso per tornaconto elettorale (emblematica la vicenda dello ius soli) piuttosto che per vero convincimento ideologico, sono molto palesi. Resta tuttavia da comprendere se con questo partito/movimento ci possa essere un dialogo o meno. Dal mio modesto punto di vista ritengo che l’occasione di aprile sia stata sprecata e difficilmente tornerà: il cambiamento proposto da Bersani andava facilitato. Solo attraverso un appoggio esterno si sarebbe capito se l’allora segretario del PD stesse bluffando o meno. Ma c’è una cosa che Grillo e i suoi continuano a non comprendere: non tutti potranno pensarla come loro. Non perché siamo brutti e cattivi, come si dice dell’orco delle favole dei bambini, ma semplicemente perché la politica è questo: mediazione, compromessi di posizioni e interessi contrastanti. E l’Italia è una Repubblica Parlamentare, non assembleare. Le tanto desiderate commissioni parlamentari, così come ricordato ancora da Valentini junior nel libro, nascono soltanto dopo la formazione del governo, dove si capisce chi gioca con la casacca della maggioranza e chi indossa invece quella dell’opposizione. Ma un governo, responsabile dell’amministrazione della cosa pubblica, deve esserci e per quel principio di separazione ed equilibrio dei poteri, che evidentemente ancora non hanno ben digerito nel movimento di Grillo, esso deve essere paritetico con il Parlamento attraverso un voto di fiducia (nel nostro Ordinamento).

Loro affermano di puntare al 100%, nel senso – voglio credere – che quando la totalità dei partiti adotterà lo stesso sistema di formazione delle politiche come fanno loro, allora il Movimento avrà raggiunto il suo scopo e non avrà più ragione di esistere.

Ora a parte il fatto che ho una naturale allergia verso coloro che vogliono monopolizzare qualunque cosa, il punto è un altro: storicamente è dimostrato che con tutti i difetti che ha la democrazia rappresentativa, così come la conosciamo, è l’unica forma di governo, parlamentare o presidenziale che sia, che riesca a mitigare la natura per definizione individualista dell’essere umano con un minimo di stato sociale e di benessere diffuso. Proprio l’esperienza della democrazia cosiddetta diretta, che poi tale non è, essendo praticamente impossibile stabilire una linea politica attraverso un blog, un dialogo fra tweet o nella successione di commenti sui post di Facebook, ci ha fatto capire – in questi mesi – come sia auspicabile che nell’offerta politica ci siano più modi possibili di intendere la rappresentatività. Se ai pentastellati piace il sistema attraverso la rete ben venga: tuttavia trovo insultante ridicolizzare i tre milioni in fila a novembre 2012 per scegliere il loro candidato premier o i due milioni lo scorso otto dicembre per il nuovo segretario del PD. Ci sono parlamentari grillini che hanno ricevuto meno voti di quanti ne ricevetti io alle elezioni del Consiglio di Istituto nel mio liceo nel lontano 19881987! Lo stesso Stefano Rodotà prese poco più di quattromila click, se non ricordo male, non proprio un plebiscito popolare!

Trovo surreale che coloro che sono entrati nel palazzo al grido di “onestà e competenza“, dato che gli altri – tutti – erano “ladri e stupidi“, si siano poi stupiti e infastiditi se la stampa li ha presi di mira per le loro innumerevoli gaffe, dalle scie chimiche alle sirene, dai microchip sottocutanei all’enorme ignoranza dell’ABC costituzionale. Sono saliti sui tetti per difendere la Costituzione e la procedura di revisione costituzionale prevista dall’articolo 138 ma nulla hanno mai detto sulle posizioni del Movimento sul vincolo di mandato, anzi. Hanno epurato, hanno espulso parlamentari, che si sono attenuti alla loro libertà di coscienza. Si direbbe che quello è il regolamento del Movimento: ma caspita, un regolamento anticostituzionale di un movimento che vuole difendere la Costituzione!

Infine un’ultima considerazione da vecchio laureato in ingegneria elettronica/telecomunicazioni: nelle parole di Niccolò Valentini, così come in quelle di tanti altri colleghi ingegneri molto più giovani di me e spesso dei nuovi ordinamenti universitari, vedo come essi abbiano una specie di visione fideistica nella rete, in internet, nei social network. Osservo teorizzare la fine della carta stampata perché tanto adesso c’è il web per informarsi, eppure essendo un utente e un autore sul web, trovo questa visione quasi divinatoria della rete come frutto di qualche errore di formazione scolastica e professionale.

Forse sarà stato l’inseguimento dell’iperspecializzazione degli studi, il fatto che noi abbiamo (avevamo?) una struttura liceale e universitaria poco incline alla pratica e molto, a volte troppo, teorica, sta di fatto che si ha come l’impressione che le nuovi generazioni di laureati nelle discipline tecniche siano come invaghiti, impossessati dal demone della tecnologia. Come se questa fosse centrale nella vita, dimenticando invero che sono gli esseri umani, che è l’uomo sempre e comunque artefice del proprio destino.

Nel mondo grillino avviene come una sorta di mescolanza di due ricerche: da un lato quella  dell’uomo forte (in questo caso sotto le sembianze del loro portavoce-megafono), in grado di distruggere tutto per poi ricostruire, come se non si potesse mai andare avanti senza aver demolito ciò che ci ha portato fin qui; dall’altro la ricerca di un nuovo mondo ugualitario, di una sorta di nuova utopia che si pensa possa avere come naturale teatro la rete, i social network, i nuovi media, senza però rendersi conto che come nella Fattoria di Orwell ci sarà sempre qualcuno più uguale degli altri e che l’esperimento della pianificazione totale nella società – nell’Unione Sovietica – è miseramente fallito probabilmente perché totalmente innaturale con la natura umana.

Dalla lettura di questo libro, che consiglio a chiunque sia appassionato di politica e di società, un’amara sensazione: che tutta la rabbia e la frustrazione di moltissimi giovani che hanno aderito al Movimento e che rivendicano – giustamente – un ricambio generazionale nelle classi dirigenti del Paese, non ha partorito una visione del futuro prospera e piena di speranza, bensì un qualcosa di buio, di angoscioso e di paura. E nonostante le elezioni di febbraio avessero consegnato al Paese un parlamento profondamente rinnovato (nel PD l’80% dei parlamentari è giovanissimo) il timore della contaminazione con gli altri ha fatto sì che si rinunciasse a priori a qualunque confronto, forse per la paura di scoprirsi molto impreparati nei riguardi dello stesso mondo che si sarebbe voluto sfidare e che quelle parole d’ordine come decrescita felice alla fine erano vuote, per il semplice fatto che si può decrescere felicemente quando le condizioni lo permettano ma non quando le diseguaglianze sociali sono estremamente acuite dalla peggiore crisi che il nostro mondo occidentale abbia mai vissuto dal 1929 in poi. Forse a febbraio è arrivato un boom troppo forte, inaspettato, che ha colto il Movimento di Grillo in fallo: perché è sempre troppo facile mandare a quel paese quando stai fuori, ma quando devi assumerti responsabilità è allora che si vede chi è in gamba e chi no. E in questi dieci mesi di Parlamento non mi sembra che dal gruppo grillino si sia notato qualcuno in grado di assumere su di sé la responsabilità del Governo del Paese, di prendere decisioni erga omnes, senza cedere al facile populismo.

Insomma le nuovi generazioni pentastellate, tanto decantate come giovani, competenti e oneste, non mi sembra abbiano brillato come le loro stelle nel loro simbolo avevano fatto illudere e sognare.

 

 

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