Il rimpianto collettivo

 In POLITICA

Quando uscì Sliding Doors, con quelle porte scorrevoli del treno del Tube di Londra che si chiudono e le due storie parallele che cominciano a scorrere sugli schermi, chiunque di noi avrà immaginato il proprio “e se fosse andata così?“. Che lo si sia fatto per una storia d’amore, per un’offerta di lavoro mancata o per una accettata, per una qualunque scelta che quotidianamente compiamo, è poca cosa rispetto al globale e mondiale rimpianto collettivo che l’intera umanità cominciò a provare 50 anni fa, dopo che Walter Cronkite – dagli studi della CBS, trentotto minuti dopo la morte – confermò che il Presidente Kennedy era morto.

Il mondo per come lo conosciamo oggi è forse figlio di quell’istante, di quell’evento tragico non soltanto per l’America ma per ogni paese sulla terra per svariate ragioni: innanzi tutto Kennedy è stato un presidente di grandi aspettative, come spesso accade quando c’è di mezzo la sinistra, e il fatto che la sua vita e il suo mandato siano stati interrotti bruscamente, senza che tali aspettative siano state portate a compimento, ha ovviamente intessuto di romanticismo e di eroismo una storia che altrimenti – chissà – sarebbe andata in maniera diversa. D’altronde anche noi – che viviamo l’epoca di un altro presidente americano, entrato alla Casa Bianca carico di attese e aspettative – stiamo sperimentando giorno dopo giorno un calo di popolarità e di consensi che Barack Obama ormai si porta dietro, confermando quella maledizione del secondo mandato, come l’ha chiamata Vittorio Zucconi qualche giorno fa su Repubblica, che i grandi presidenti si portano con sé.

Kennedy è stato un uomo di grandi suggestioni: dall’insediamento, con quella sua retorica esortazione, rivolta ai suoi fellow americans, di non chiedersi cosa potesse fare la Nazione per loro bensì il contrario; allo storico discorso in una Berlino divisa in due da un muro e dall’idiozia degli uomini.

 Duemila anni fa l’orgoglio più grande era poter dire civis Romanus sum. Oggi, nel mondo libero, l’orgoglio più grande è dire Ich bin ein Berliner. Tutti gli uomini liberi, dovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino, e quindi, come uomo libero, sono orgoglioso delle parole Ich bin ein Berliner! 

Nello stesso istante in cui Jack moriva e il suo Vice Presidente Johnson prestava giuramento, perché la Costituzione Americana è riuscita – due secoli e mezzo fa a codificare la continuità istituzionale in maniera impeccabile, John Fitzgerald Kennedy cessava di essere il 35° Presidente degli Stati Uniti d’America e diventava mito e rimpianto. E proprio come ogni mito che si rispetti ha cominciato da un lato ad alimentare un’epica che soltanto dopo mezzo secolo comincia persino a essere quasi ridimensionata, o meglio collocata nel giusto alveo della storia, quella di un politico più di centro che di sinistra, a differenza del fratello Robert più spostato a sinistra, con un enorme dono della natura per quel suo bucare il video e arringare la folla; dall’altro è cominciato un incredibile Sliding Doors di rimpianti.

Cosa sarebbe successo se si fosse salvato? Che avrebbe fatto nell’ultimo anno di mandato? Sarebbe stato rieletto l’anno dopo? E per noi europei – tirati per la giacca dai due imperi che si erano persino divisi la Germania, cuore dell’Europa continentale con la sua capitale – Berlino – divisa in due, cosa avrebbe comportato? Quali rapporti avrebbe mantenuto con Krushev e con l’Unione Sovietica?

Domande ovviamente senza risposta, ma così tanto cariche di pathos che ovviamente suggestionano. Ne potremmo persino azzardare altre: che sarebbe successo al fratello Bob? Avrebbe affrontato subito dopo il fratello l’avventura della candidatura poi tragicamente chiusa a Los Angeles? Avremmo avuto Nixon e il Watergate? Sarebbe caduto il Muro prima?

Cinquanta anni dopo – mentre ancora non sappiamo tutta la verità per la gioia dei complottisti che esistono in tutte le epoche e a tutte le latitudini – oggi alla Casa Bianca siede Barack Hussein Obama, un altro figlio di quella suggestione che Jack Kennedy lanciava dalla balaustra del Campidoglio dopo aver giurato fedeltà all’America. Un Obama che all’epoca dell’assassinio del suo predecessore aveva soltanto due anni e forse aveva visto il Continente soltanto in cartolina, essendo nato alle Hawaii. Come Kennedy, Obama è stato caricato di molte aspettative e non soltanto per il fatto che fosse un Democrat, ma soprattutto per la portata storica della sua elezione, primo nero con un nome africano e musulmano a entrare nello Studio Ovale.

Possiamo aggiungere un altro “se” alla storia di Kennedy: John scompariva a 46 anni, un’età alla quale lo stesso Obama ancora non era stato eletto (ne aveva 47 quando nel 2008 vinse le elezioni contro John McCain). Ecco, se fosse stato italiano probabilmente sarebbe stato vivo e vegeto perché a 46 anni – almeno fino all’anno 2013 e salvo la fulminea presenza di Giovanni Goria a Palazzo Chigi – non ci possiamo permettere certo di diventare di guidare un intero paese!

Lì invece si può persino guidare l’America.

Recommended Posts
CONTATTAMI

Per qualunque informazione scrivimi e ti risponderò al più presto possibile.

Not readable? Change text. captcha txt
0
VINCENZOPISTORIO.COM