Armi di rimozione di massa
Non riesco più a ricordare da quanto tempo non mi trovassi d’accordo con gli editoriali e i corsivi giornalieri di Marco Travaglio sul Fatto, ma oggi non posso che applaudire il giornalista piemontese.
In un Partito Democratico impegnato in una drammatica resa dei conti è praticamente stato derubricato a scazzo senile un atto politico di un’enorme gravità.
Il fatto che Romano Prodi non soltanto non abbia ritirato la tessera del partito ma addirittura nemmeno parteciperà al voto delle primarie dell’8 dicembre è passato in sordina e non ha avuto il dibattito che in qualunque altro partito normale dell’universo si sarebbe tenuto.
Non si tratta di un simpatizzante, un elettore, un cittadino qualunque: Romano Prodi è stato l’inventore dell’alleanza dell’Ulivo, colui che nel 2005 introdusse le primarie per avere un mandato popolare netto, è stato il primo Presidente del Partito e introdusse i lavori della prima assemblea a Milano che ufficializzò Walter Veltroni primo segretario.
Ora dopo la famosa e triste vicenda dei 101 traditori Romano Prodi arriva a lasciare il PD e dichiara che nemmeno si recherà ai gazebo.
Davanti a tutto questo i quattro candidati a segretario, il segretario uscente, i suoi predecessori e il Capo del Governo, già vice segretario del Partito, non dicono nemmeno mezza parola su questa cosa enorme.
Come se avessero rimosso Romano Prodi e la sua storia dal Partito Democratico, storia che per inciso coincide con le uniche due volte nelle quali Silvio Berlusconi è stato sconfitto nelle urne e peraltro con gli unici governi, negli ultimi venti anni, nei quali il segno positivo davanti al PIL ha consentito al Paese di crescere. Sarà certo stato il fattore C ma è consentito – statistiche alla mano – di nutrire forti dubbi.
Che futuro possa avere un partito che rimuove il proprio fondatore francamente non saprei.