Si fa presto a dire social
Quando il 18 maggio 2012, un anno e mezzo fa, Mark Zuckerberg portava la sua famosa creatura Facebook, Inc. nell’ottovolante della borsa di New York, scrissi questo pezzo. Contemporaneamente a Camp David, vicino Washington, si teneva un G8 molto nervoso per le fibrillazioni sul versante finanziario. Temevo che dopo aver visto varie bolle speculative quella sociale fosse pronta per esplodere. Mi sbagliai e i dati finanziari dell’azienda bianco e blu sono lì a ricordarmelo. Così come l’imminente quotazione di Twitter si preannuncia foriera di grossa raccolta di capitali.
Mi è tornato in mente questo pezzo mentre stavo studiando la piattaforma pubblicitaria di Facebook, fonte principale dei guadagni dell’azienda californiana, e mi rendo conto di come in Italia siamo invece ancorati ad un modello pubblicitario che ha il suo perno nella televisione generalista dei due grandi network televisivi. D’altronde con l’unico tycoon privato entrato in politica per salvare le sue aziende e con un’alternativa politica incapace di leggere il futuro e comprendere che nel campo dei media grandissimi cambiamenti, soprattutto dai modelli di business, stavano arrivando da oltre oceano, era scontato che nel nostro Paese la diffusione dei social network fosse ancora al livello primordiale del contatto fra compagni delle elementari.
Ma cosa è un social network? Qual è il suo scopo? Perché addirittura arriva a quotarsi in Borsa? Sono trascorsi oltre cinque anni da quando mi iscrissi su Facebook, poco tempo dopo il suo sbarco nel Vecchio Continente e su per giù dello stesso periodo è la mia iscrizione su Twitter, l’altro principale strumento di informazione del momento, anche se cominciai ad adoperarlo abbastanza negli ultimi due anni. Nel 2008 – ricorderete – ci fu la prima vera campagna elettorale social, quella che portò Obama alla Casa Bianca.
Il sapiente uso dei nuovi media sociali, integrati con i vecchi spot TV e con dei seri dibattiti televisivi fra il senatore dell’Illinois e quello dell’Arizona, John McCain, fecero di quella campagna per le presidenziali una sorta di pietra miliare nel mondo 2.0 dell’informazione. All’epoca Facebook, Twitter, Linkedin, cominciavano a muovere i primi passi. Molti social network, da Instagram a Pinterest, o ancora non esistevano oppure erano ancora di nicchia, fra i college o i garage americani dove spesso nascevano ai gruppi ristretti di utenti spesso sotto invito. Ma a cosa servivano forse non era chiaro, a parte condividere uno stato emozionale. Poi venne il turno delle fotografie, dei video, e fu chiaro che i social network non potevano certamente limitarsi all’incontro virtuale con il vecchio compagno di banco delle elementari, con la ragazza delle superiori che non ti filava e che ora magari godi nel vederla poco appetibile o con la ex fidanzata che scopri ancora affascinante ma che patisce le pene dell’inferno!
No, è chiaro che non si mette su tutto questo ambaradan, non si mobilitano ingenti capitali, se non ci fosse un serio business dietro.
Nel 2013 un social network è fondamentalmente uno strumento di conoscenza, di dialogo e di condivisione, dai propri pensieri con gli amici alle iniziative più interessanti con i potenziali clienti: è un passaparola dei nostri giorni per far sì che un progetto, un’impresa, una qualunque iniziativa volta a “creare” qualcosa possa raggiungere notorietà e successo. Ovviamente su quella piattaforma si investono tanti quattrini in pubblicità, cercando di trovare il modo che un post, una pagina, raggiunga qualche successo e diventi un fenomeno mediatico se non virale. Il modo di partecipare ai social network è quindi profondamente cambiato, specialmente nei paesi anglosassoni dove la spinta ad un nuovo tipo di capitalismo è quasi sempre assai superiore che nel nostro Paese.
Spesso noi ci limitiamo a schiacciare sul pulsante “like“, “mi piace“, ignorando inconsapevolmente che ormai il flusso dei likes è talmente veloce che nemmeno lo si nota più nulle nostre bacheche (Wall) di una volta, le timeline, i Diari nella nuova versione di Facebook, specialmente per le tante applicazioni che utilizzano le piattaforme sociali principali come strumento di accesso e di pubblicità a loro volta.
Ancora peggio per Twitter dove i preferiti spesso nemmeno vengono più letti dato l’enorme flusso di cinguettii che ciascuno di noi fa.
Personalmente quando ci sono eventi che mi colpiscono e soprattutto quelli che mi vengono suggeriti, spesso su nuove imprese o nuovi progetti, sia di amici stretti (se non familiari), sia di persone che conosco a malapena o che sono legate a me magari soltanto attraverso qualcuno in comune, preferisco sempre condividere e pubblicizzare.
Come altre volte ho scritto, tra i principi evangelici secondo me il più importante è quello riassunto nella regola aurea, spesso letta in negativo, ma che è perfetta anche in una visione ottimistica: “fare agli altri ciò che vuoi sia fatto anche a te“. Sono convinto infatti che questi strumenti di conoscenza possano essere molto più potenti se ciascuno di noi spende un attimo del proprio tempo e li utilizza in maniera più oculata. D’altronde non si dice che in sei gradi di separazione sta tutta l’umanità? Quante volte condividiamo un filmato divertente o una foto non proprio intelligente! Non possiamo fare lo stesso con l’impresa di un amico o di un conoscente?
Anche perché – spesso – questi progetti che nascono sul web e che provano a stare in rete nascono dal fuoco che ciascuno di noi, imprenditori e lavoratori del web, sentono dentro, spesso perché stretti nel loro mestiere giornaliero, cercando di trovare un’altra strada.
Molti – so per certo – temono di compromettersi con le condivisioni, forse perché da un lato sentono il peso emotivo di appoggiare qualcuno (mi sentirò in colpa se non ce la fa?) e dall’altro magari proiettano su di sé le paure che l’imprenditore inevitabilmente ha (è impossibile che ci riesca, senza conoscenze politiche!). Costoro però dovrebbero tranquillizzarsi: nessun imprenditore sano di mente fa mezzo passo più lungo della sua gamba e anche prima di inviare una mail, un ordine, una qualunque richiesta o un curriculum, analizza il proprio business plan milioni di volte.
Purtroppo siamo un popolo molto conservatore in campo economico (e lavorativo) e quando vediamo persone che si mettono in gioco spesso le ostacoliamo o quanto meno non le incoraggiamo come potremmo. Siamo come ossessionati dal posto di lavoro tradizionale (che è in via di estinzione!), quasi non riusciamo a concepire un’alternativa senza renderci conto che l’alternativa prima o poi arriverà lo stesso perché l’Italia non può più permettersi una struttura industriale come l’abbiamo conosciuta finora.
L’altro giorno in Senato Beppe Grillo ha detto una cosa intelligente e chi mi legge sa quanto io sia distante politicamente dal fondatore del Movimento Cinque Stelle: un Paese che non investe e con capisce il settore dell’ICT è destinato a morire. Poi Grillo confonde Telecom Italia e i servizi di rete di telecomunicazioni con tutto l’ICT e ciò da lui mi divide, ma sul nocciolo della questione ha ragione da vendere.
In un paese post-industriale come il nostro dovremmo assolutamente investire e incoraggiare qualunque lavoro si svolga sul web o attraverso il web. Siano nuove applicazioni per la gestione turistica, culturale; siano nuovi media da esplorare, nuove modalità di consumo. Non so, e nemmeno voglio essere pessimista, se il treno ormai l’abbiamo perso. Penso che il progresso scientifico e tecnologico sia qualcosa di molto diverso da come lo abbiamo conosciuto venti e passa anni fa e che non tutto è propriamente perduto. Certo colpisce che i social siano nati tutti in America ma è anche vero che nel tessuto sociale e imprenditoriale degli americani il concetto di rischio è molto più vissuto pacificamente che da noi in Europa.
E noi cittadini di questo mondo virtuale, del web, che possiamo fare?
Penso che possiamo essere parte attiva facendo quello che una volta si faceva in piazza, nei bar, nei salotti: il passaparola. Stare in maniera attiva sui social network, aiutare gli altri a far crescere il business network che si stanno costruendo.
Si chiama pubblicità e per una volta si può essere dalla parte attiva dello schermo e non da quella passiva. Basti pensare al gioco delle caramelle, Candy Crush Saga, ideato e sviluppato da un italiano (emigrato a Londra) e che si è rapidamente diffuso nella rete proprio grazie al legame di accesso con Facebook.
Qualunque siano i nostri progetti, qualunque sia la nostra storia e qualunque sia la nostra posizione rispetto a queste idee ci corre l’obbligo di aiutare sempre amici, conoscenti e colleghi che cercano – nel mare magno della rete – una loro rotta.
Perché è questo il modo di fare impresa nel XXI secolo: passa necessariamente attraverso il web e le strutture sociali che di sopra sono state create per facilitare il commercio.
E impresa significa crescita e crescita posti di lavoro. Quindi benessere. Per tutti.
In bocca al lupo allora al passerotto che fra poco volerà e cinguetterà a Wall Street!