Matteo 25,31-46
Comincio a non poterne proprio più della malvagità e dell’ipocrisia di coloro che di questi tempi blaterano di immigrazione clandestina, riguardo agli ultimi sbarchi in Sicilia, con le bare calde calde e zeppe persino di bambini che hanno trovato la morte a cinquecento metri dalle nostre spiagge, quelle dove giustamente trascorriamo le nostre meritate vacanze estive.
Non sopporto più questa ipocrisia, specialmente da chi nel fine settimana se ne va in chiesa, si mette in ginocchio, recita il proprio Atto di Dolore e magari si comunica. Ipocrisia bella e buona perché se si ripassassero un po’ di quel Vangelo che dovrebbero mandare a memoria, visto come pontificano dalla mattina alla sera, ritroverebbero quel passo – citato come titolo di questo post – nel quale Cristo parla del Giudizio Finale.
“Ero nudo e mi avete vestito, ero affamato e mi avete dato da mangiare, ero carcerato e mi avete visitato“: quando poi gli chiederanno “quando, Signore, lo abbiamo fatto?“, allora Egli risponderà: “in verità, in verità vi dico: quando avrete fatto questo all’ultimo dei miei fratelli, allora sarà come se l’aveste fatto a me“.
E cosa sono allora questi che molti si ostinano a chiamare clandestini e invece sono soltanto uomini, donne e bambini che fuggono dalle loro patrie, infestate dal germe della guerra? Non dovrebbero essere quegli ultimi che noi, che tanto abbiamo sbraitato per avere le radici cristiane nella defunta costituzione europea, dovremmo vestire, sfamare e visitare?
Non sono anche essi figli di Dio, fratelli e sorelle, o forse riteniamo che la Caritas Dei risieda soltanto in noi, immodesti e patetici abitanti dello Stivale e del mondo occidentale?
Come si può, alla vista di quegli orfanelli, che passano le loro giornate in un campo profughi di un’isola lontana, senza nemmeno spiccicare mezza parola della nostra lingua, anziché stare nelle aule di una scuola, mangiare un sano pasto e dormire in una cameretta come fa ognuno dei nostri figli, come diavolo possiamo continuare a considerarli clandestini e magari potenziali delinquenti?
Come si può pensare che il metro dell’economia, del posto di lavoro, della pseudo sicurezza (a San Basilio, meno di un chilometro da dove mi trovo adesso, ieri hanno fatto una retata antidroga, giusto per parlare di sicurezza) delle nostre città possa essere lo strumento idoneo per affrontare un problema che prima di tutto è umanitario perché coinvolge sempre delle persone?
Che società sta diventando quella italiana, europea, occidentale, se un trattato, una legge, un regolamento di frontiera possa avere la prevalenza persino sulla civile convivenza e sul rispetto dei diritti umani e della persona?
Come si può provare paura per un’invasione numericamente irrilevante rispetto all’intero della popolazione italiana ed europea che è invece un dramma umanitario di proporzioni immani?
Affermano costoro che dovremmo aiutarli a casa loro: certo, ma come? Qual è l’interlocutore tunisino, libico, egiziano, siriano, affidabile a tal punto che i diritti umani vengano garantiti?
Possibile che non si capisca che questa immigrazione non è la stessa di quella clandestina per motivazioni economiche (ad esempio quella del confine messicano, dato che spesso viene presa ad esempio la legislazione statunitense) ma è molto più simile al dramma umanitario dei Balcani di venti e passa anni fa?
Veramente abbiamo dimenticato quella nave al porto di Bari straripante di profughi dal Kosovo?