C’era una volta a Onna
Quando il 25 aprile 2009, sessantaquattro anni dopo la Liberazione del Nazi-Fascismo, ben quindici anni dopo la sua discesa in campo, Silvio Berlusconi tenne il suo primo (e finora unico) discorso di commemorazione dell’Anniversario della fondazione della nostra democrazia, tutti i giornali, telegiornali, radiogiornali riconobbero un profilo alto alle parole pronunciate dall’allora Presidente del Consiglio.
Con addosso il fazzoletto da partigiano, in una Onna distrutta e devastata dal fortissimo terremoto che aveva colpito l’Abruzzo qualche settimana prima, Berlusconi appariva un altro, rispetto al solito.
Aveva stravinto le elezioni del 2008, era all’apice del suo potere con una maggioranza enorme in Parlamento: quel giorno – secondo il manuale del bravo venditore che prescrive il farsi concavo e convesso a seconda dell’interlocutore – Silvio si fece partigiano.
Chiuse persino il discorso con “Viva il 25 aprile!“, proprio lui che ha i suoi giornali che pubblicano – ancora e a tutta pagina – il faccione del Duce, pubblicizzando tutto il merchandising che evidentemente ancora si vende su Mussolini. Chiuse così il discorso, in un crescendo diremmo epico:
Ed è proprio nei confronti degli eroi di allora e di oggi che noi tutti abbiamo una grande responsabilità: quella di mettere da parte ogni polemica, di guardare all’interesse della nazione, di tutelare il grande patrimonio di libertà che abbiamo ereditato dai nostri padri.
Abbiamo, tutti insieme, la responsabilità e il dovere di costruire per tutti un futuro di prosperità, di sicurezza, di pace, e di libertà.
Viva l’Italia! Viva la Repubblica!
Viva il 25 aprile, la festa di tutti gli italiani, che amano la libertà e vogliono restare liberi!
Viva il 25 aprile la festa della riconquistata libertà!
Qualche giorno dopo, come in un’incredibile storia da “Dr. Jekyll e Mr. Hyde” piombò sulle pagine di Repubblica la lettera di Veronica Lario che con il suo ciarpame senza pudore e le famose vergini offerte all’imperatore aprì il lunghissimo travaglio della decadenza dell’uomo politico attorno al quale l’Italia ha più girato nella sua storia repubblicana.
Tutto potevamo immaginare un finale per la sua epopea. Nanni Moretti aveva provato con il suo “il Caimano” a drammatizzare la fine di un’epoca con l’assalto al Palazzo di Giustizia di Milano. Ciascuno di noi avrà pensato a un finale scoppiettante, fatto di comizi, gesti inconsulti, pitonesse sacrificate sull’altare della gloria e bombe atomiche sganciate sulla Magistratura.
E invece la fine politica di questo uomo, anziché essere quella di uno statista, o persino di un Caimano con un bel colpo di coda, assomiglia giorno per giorno a quella di un uomo senza dignità, senza amor proprio, di un quaquaraquà: spesso i suoi servi lo hanno paragonato a Bettino Craxi, ma così facendo non rendono giustizia all’ex segretario del Partito Socialista Italiano che almeno ebbe l’orgoglio di alzarsi in Parlamento e difendersi in quell’Aula di Montecitorio che lo aveva visto protagonista per venti anni, persino dallo scranno di Presidente del Consiglio e in momenti esaltanti per il suo ego.
In molti immaginavamo una fine diversa per Berlusconi: un discorso fiammeggiante al Senato, il suo sbattere sul tavolo la propria innocenza, l’accusa alla Magistratura nell’aula di Palazzo Madama e le dimissioni da Senatore senza nemmeno accettare un dibattito sulla sua persona! “Chi siete voi comuni mortali per poter dibattere sul mio destino?“, avrebbe potuto dire forte della previsione di immortalità del suo medico personale Scapagnini e del suo amico e confidente don Verzè, che evidentemente tanto successo per se stessi in tema di immortalità non hanno avuto! Lui, l’uomo che si definì l’Unto del Signore, che soltanto una vile Chiesa Italiana non ha mai condannato come bestemmiatore, avendo osato definirsi il nuovo Cristo, lui non avrebbe mai accettato che quattro morti di fame di comunisti, quella cinquantina di folli talebani pentastellati e quei pochi seguaci di quel noioso e borioso professore della Bocconi, potessero mai decidere per lui il destino del Messia della politica italiana.
Avremmo preferito un Berlusconi che si ritirasse ad Arcore e da lì conducesse la propria battaglia. Se veramente fosse stato convinto non soltanto della propria innocenza ma dell’enorme complotto dell’umanità ai danni della sua persona.
E invece ci troviamo di fronte un verme, che non soltanto cerca di sfuggire alla propria pena con tutti i cavilli di questo mondo, ma sta cercando di rimanere incollato a quella sedia di senatore con metodi surreali, come se non fosse chiaro a tutti che – giorno più giorno meno – l’interdizione dai pubblici uffici scatterà.
Come se non fosse evidente che quella perpetua, alla quale è stato condannato in primo grado per il processo Ruby, non abbia buone possibilità di essere confermata in Appello e Cassazione. Come se il processo di Napoli sulla compravendita dei senatori, basato sulla confessione del reo comprato, l’ex senatore De Gregorio, non lo porterà proprio a un’altra interdizione.
Per fortuna che alle favole dello statista di Onna in molti non abbiamo creduto, perché immagino che delusione stiano provando tutti coloro che incensarono l’allora premier e si trovano oggi davanti questo topolino impazzito che cerca di fuggire dalla nave che affonda.
Ed è persino comprensibile che fieri avversari del Caimano, oggi divenuto sorcio come per un incantesimo, non facciano altro che attaccare ogni giorno il Partito Democratico e Giorgio Napolitano, che non stanno concedendo nulla al loro storico avversario. Hanno provato a rimpiazzarlo con Mario Monti ma evidentemente nei lettori e negli adepti della setta non sortisce lo stesso appeal di quello che Silvio Berlusconi in tutti questi anni ha suscitato.
Meglio inventarsi un altro nemico che tutti teniamo famiglia e ogni click in più è un click guadagnato.