Il piano B
La settimana scorsa, Federico Rampini, sull’inserto femminile (ma perché si chiama femminile? Noi maschietti non possiamo leggerlo? Mah!) di Repubblica di sabato scorso, parla dell’incontro con un Top Manager della Microsoft che conosce bene l’Italia. Il corrispondente da New York, del quotidiano fondato da Scalfari, domanda al dirigente quali siano le differenze nell’atteggiamento degli under 30 di fronte all’ingresso nel mondo del lavoro.
Riporto per semplicità le poche righe scritte da Rampini:
Un giovane italiano che si laurea in informatica, manda il suo curriculum vitae a 30 aziende, e aspetta che rispondano. Se non rispondono subito, aspetta ancora. Un giovane americano che si laurea in informatica, manda il suo curriculum vitae a 30 aziende, e se non ha ricevuto una risposta entro due giorni comincia a chiedersi: cosa devo fare per inventarmi un lavoro da solo, crearmi con le mie idee e con le mie energie un’attività che non esiste ancora? Nella descrizione di quel dirigente della Microsoft, i coetanei dei nostri figli qui in America hanno tutti già in mente il “piano B”. Se non mi assume un’azienda, devo essere pronto a costruirmi una soluzione alternativa. Da solo, o meglio ancora unendo le mie forze con quelle di altri coetanei, decisi come me a farsi strada senza aspettare che l’ufficio del personale di una grande azienda li convochi per il colloquio di assunzione.
Ecco, la domanda che io mi pongo è: ma stiamo educando le future generazioni, noi che direttamente o indirettamente ne abbiamo la responsabilità, a preparare anche un “piano B” oppure stiamo perpetuando gli stessi errori delle generazioni precedenti la nostra che consideravano un diritto inalienabile il dover trovare un posto di lavoro a tempo pieno, nello stesso filone di studi che avevi fatto e magari a venti chilometri massimo da casa? Stiamo aiutando i nostri figli e i nostri nipoti a prepararsi affinché tale piano di riserva non sia semplicemente una fuga dal nostro Paese come probabilmente continuerà a capitare?
Per quanto altro tempo ancora dobbiamo sopportare inutili dibattiti attorno alla pressione fiscale sugli immobili, alla tanto omaggiata, venerata e persino idolatrata prima casa, prima di comprendere che è il sapere (che non coincide necessariamente con il pezzo di carta appeso al muro), la conoscenza e l’istruzione sono il miglior investimento per le future generazioni? Quando l’ex ministro Fornero osò parlare di come sia preferibile far studiare i propri ragazzi anziché pensare semplicemente al tetto da far loro trovare una volta divenuti adulti, dagli estremi degli schieramenti politici (per intenderci da Brunetta a Grillo, da Ferrero a Di Pietro!) si levarono urla di sdegno.
Eppure proprio le vecchie generazioni dovrebbero essere consci dell’importanza di prepararsi per tempo alle stranezze della vita che non sempre procede come noi vogliamo. Ne parlai quest’estate traendo spunto dai titoli dei giornali per una tragedia avvenuta a Palinuro, nel Cilento. Se forse noi quaranta-cinquantenni siamo stati in grado di trovare un lavoro attinente ai nostri studi, già coloro che hanno dieci anni in meno non sono più in queste condizioni. Non possiamo più permetterci il lusso di aspettare la risposta dell’Ufficio del Personale o come più ipocritamente si chiama oggi Ufficio delle Risorse Umane.
È notizia di questi giorni che è avvenuto il sorpasso fra i lavoratori con contratti atipici e quelli con un contratto full time a tempo indeterminato: è una notizia che nemmeno ha aperto telegiornali, così come siamo impegnati nel valutare la decadenza di un senatore pregiudicato, la discesa salvifica dell’ennesimo Messia della sinistra o le contorsioni intestinali di un gruppo parlamentare di fatto inutile e congelato in attesa della rivoluzione.
Eppure il sorpasso di cui sopra dovrebbe farci riflettere: fra un po’ è l’aggettivo stesso, precario, a dover essere cambiato. La precarietà so bene che si riferisce all’instabilità della posizione lavorativa: ma quando questa instabilità diventa la regola, quasi erga omnes, ecco che tutto cambia. L’interrogativo che ci poniamo diviene quindi: è realistico pensare che in futuro si possa ripristinare la stabilità? E anche in questo caso: abbiamo un “piano B“?
Personalmente sono molto scettico sull’eventualità di un ritorno massivo verso i contratti a tempo indeterminato: nonostante il sostanziale fallimento delle ipocrisie sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, che in realtà è stato superato dai fatti, il problema si è spostato su qualcosa che spesso abbiamo letto e scritto in più parti: come creare il lavoro.
Il nostro Paese vive una crisi economica sì congiunturale ma anche epocale per quanto riguarda la sua creatività: non si è capito per tempo che la natura stessa dei competitor internazionali, la globalizzazione del mercato e del commercio, la mobilità dei lavoratori all’interno dell’Unione Europea, avrebbero modificato in profondità la stessa nostra composizione industriale. Se da un certo punto è vero che la forza delle nostre economie sono le PMI è altrettanto vero che questa struttura piccola, se non riesce a farsi sistema, soccombe di fronte a imprese di più ampia dimensione o che fanno appunto sistema.
Cosa fare?
Innanzi tutto ci vorrebbe una seria politica industriale, sebbene per far questo si avrebbe bisogno di una classe dirigente all’altezza dei tempi e anche – forse soprattutto – una cittadinanza meno dedita ad ascoltare promesse elettorali o assecondare la propria legittima rabbia e più propensa a inventarsi un nuovo sviluppo economico e sociale. Viviamo in un paese dove le statistiche ci informano che sì l’80% ha una casa di proprietà ma che anche esistono grandi ricchezze proprio nel mattone, nell’immobiliare. Sono ricchezze, appunto, immobili che non generano affatto altra ricchezza, anzi. In un paese a forte evasione fiscale come siamo noi spesso tali ricchezze immobiliari sfuggono al fisco con meccanismi creativi, dalla false residenze alle false separazioni, da divorzi formali agli affitti in nero. Così facendo non si immettono capitali freschi che potrebbero servire per creare imprese nuove, con il risultato che l’accesso ai capitali in questo paese è praticamente inesistente da parte di giovani di belle speranze.
Insomma inutile ammirare Apple o Microsoft, Google o Yahoo, nate nei garage dei rispettivi fondatori: Jobs e Woz si vendettero il pulmino per avere 1000 dollari da investire nella loro neonata azienda. Eppure – a poco a poco – trovarono i finanziamenti per poter andare avanti e arrivare quindi alla famosa quotazione in Borsa.
Quali capitali possono mai trovare le giovani generazioni se le maggiori ricchezze del nostro Paese sono immobilizzate e persino non vengono nemmeno più di tanto tassate grazie alla stratosferica evasione fiscale?
Ma soprattutto – per rispondere alla domanda iniziale sul piano B – dovremmo domandarci prima di ogni cosa: siamo noi quaranta-cinquantenni in grado di pensare che – nei prossimi venti anni – un piano B potrebbe servirci anche a noi oppure continuiamo a vivere sugli allori pensando ormai di essere arrivati nella vita, grazie al fantomatico pezzo di carta?