E la chiamano modernità

 In POLITICA

Negli scorsi giorni, siamo stati tanto presi dalle vicende personali di Silvio Berlusconi che è sfuggita una seria riflessione su un paio di notizie, arrivate da Londra e dalla Germania, che avrebbero meritato trattamento adeguato dalla stampa nazionale. Purtroppo siamo ormai da un mese ostaggio di un uomo che ha deciso di uscire di scena nel peggior modo possibile, persino peggio del finale che Nanni Moretti aveva pensato.

Ma non è di questo che volevo parlare bensì di ciò che hanno raccontato le cronache sia avvenuto nella City di Londra e quello che Andrea Tarquini, corrispondente da Berlino per la Repubblica, ha descritto.

La prima notizia: un giovane stagista muore per lo stress. Non si era fermato per 72 ore e il suo fisico ha ceduto. La seconda: in Germania i manager per migliorare la propria produttività e le proprie performance lavorative si impasticcano. Ce ne sarebbe anche una terza che riguarda coloro – e sono in aumento – che non staccano completamente la spina durante il periodo di vacanza e compulsano mail, documenti e telefoni, sempre always on, sempre rintracciabili, in una sorta di dipendenza dal lavoro e dal proprio datore di lavoro (o dal proprio cliente) esasperata. Sui primi due argomenti è stato chiamato a commentare il sociologo De Masi il quale – su Rai News 24 – si è soffermato sull’incredibile stortura che il mondo del lavoro moderno sta compiendo. Ha portato ad esempio Keynes e il miraggio delle 15 ore settimanali di lavoro.

La cosa che riesce difficile da digerire è che viviamo in un mondo talmente informatizzato, così connesso e tremendamente facilitato dal lavoro delle macchine che è assurdo e immorale che un ragazzo perda la vita perché non stacca dal proprio posto di lavoro e dal proprio compito.

Non so se questo ragazzo avesse qualche problema cardiaco in particolare so soltanto che studi scientifici hanno abbondantemente dimostrato che ogni ora di lavoro in più all’ottava è semplicemente inutile e persino controproducente per la concentrazione del lavoratore.

Tuttavia – anche in considerazione della seconda notizia, quella tedesca – una riflessione andrebbe fatta a partire dalla mutazione direi genetica che il lavoro contemporaneo ha subito. Le statistiche ci informano che il 72% del lavoro attuale è un lavoro che una volta si sarebbe detto di concetto, cioè non più realizzato dal fisico ma dalla mente. Pertanto lo stress andrebbe misurato non tanto sulla capacità o meno di compiere degli sforzi fisici,  per cui un certo limite, dovuto dalla muscolatura, dai tendini e dalle articolazioni, è evidente, bensì sulla capacità della nostra testa di rimanere attiva e concentrata. Eppure sembra tutto sommato scontato che uno svago, una distrazione, una vacanza hanno l’effetto benefico di ritemprare non tanto più il fisico (anzi, spesso in vacanza il fisico peggiora!) ma la testa, la mente, la capacità – tutta umana – di affrontare problemi, produrre pensieri, creare nuove cose.

Il mondo del lavoro attuale ha invece mutuato – dalla precedente organizzazione delle fabbriche – la medesima struttura: ti pago per il tuo tempo e non per quello che fai. E hanno voglia di raccontarci, i cosiddetti esperti di Risorse Umane, quelli che si eccitano durante un corso strapagato (e spesso inutile), di lavoro per obbiettivi, di teamwork e di altre diavolerie inventate per dare un senso alla propria giornata!

Forse quello stagista, nella modernissima Londra, era così capra che non gli bastavano 72 ore consecutive (che sarebbero 9 giornate consecutive di lavoro, giusto per rendere l’idea, 9 FTE, come amano dire gli esperti di pianificazione!) per portare a termine il suo compito e raggiungere quindi l’agognato obbiettivo? O forse i manager tedeschi, così eccitati e dipendenti dall’azienda, dai risultati, dai premi, dalle stock option, non sono abbastanza all’altezza del loro mestiere e devono tirarsi su in qualche modo?

No, penso che non sia questo. Il problema risiede nella programmazione, sia del lavoro che delle nostre vite.

Credo di avere abbastanza esperienza per poter affermare che l’80-90% dei progetti sono tutti, e ripeto tutti, pianificati male, non per incapacità dei Project Manager, ma per due diverse ragioni: la prima è che si è confuso il lavoro con la vita. Si lavora per vivere, non si vive per lavorare, altrimenti la vita, che è una sola, non viene vissuta completamente (il mondo non è fatto soltanto della nostra scrivania e delle quattro mura della nostra azienda). La seconda è che spesso chi sta più in alto taglia sempre di più i fondi, per massimizzare i profitti, e quindi chi deve spalare la neve (per essere educati!) è chiamato a un surplus.

Quante volte abbiamo sentito da amici, conoscenti, parenti che erano costretti a fare due ore di straordinario al giorno (portando quindi le ore lavorative giornaliere alla cifra astronomica di 10, alle quali bisogna aggiungere 1 ora per il pranzo e le varie pause fisiologiche, almeno 1 ora e mezza sui mezzi di trasporto per raggiungere il posto di lavoro, che riducono – supponendo di riuscire a trovare il tempo di dormire le otto ore suggerite dai medici – a circa quattro ore, un sesto di un giorno, il tempo che si può dedicare a se stessi, alla famiglia, ad altro)! Se sistematicamente sono necessarie due ore in più al giorno da un lavoratore è probabile che non sia il tizio scemo ma forse è il progetto pensato male, per almeno il 25% (se la matematica non è un’opinione).

In realtà ci hanno spacciato per modernità questo essere in qualche modo simbiotici con il nostro lavoro, con l’attività che espletiamo routinariamente, spostando sempre più in là il limite, il confine, fra la resistenza fisica e la capacità della mente di sopportare lo stress.

Eppure oggigiorno abbiamo a disposizione tante tecnologie in grado non soltanto di semplificarci la vita ma anche di lavorare meglio.

Sembra però che ciò non sia possibile. Forse perché l’essere umano è comunque per natura ambizioso e cerca di primeggiare comunque, in una sorta di darwinismo applicato al mondo del lavoro. Chissà!

Nei paesi di tradizione protestante l’ossessione per il lavoro è stata (è?) talmente forte nella società che è nato il neologismo workaholic per indicare i drogati di lavoro con un termine che suona simile agli alcolisti. Tale ossessione si sposa con una comunità che induce al senso di colpa quando la morale comune non viene seguita. Per cui se il senso comune sposa il workaholism, chiunque si discosti dal dio azienda, dal dio posto di lavoro, ecco che viene stigmatizzato, emarginato, in maniera tale che il suo senso di colpa venga fuori e venga espiato – ovviamente – con la totale dedizione al lavoro.

In Italia, e nelle altre nazioni cattoliche, il problema è stato invece inverso: il senso di colpa viene lavato mediante una sorta di autoassoluzione derivante dall’uso distorto del Sacramento della Riconcilazione (o Penitenza) che il fedele ottiene attraverso la Confessione individuale. D’altronde nasce proprio da un abuso della stessa assoluzione dei peccati la riforma luterana, dopo che la simonia aveva raggiunto livelli scandalosamente alti. Ma ciascuno ovviamente è figlio della propria storia, per cui la confessione e l’autoassoluzione (senza un vero esame di coscienza e un vero pentimento) si è spostata dall’aspetto religioso della società al mondo economico e del lavoro.

La verità forse starebbe in mezzo alle due visioni economiche e sociali ma siamo spesso preda delle mode.

Pensiamo a quando Sergio Marchionne divenne Amministratore Delegato del gruppo FIAT. Tutta la stampa, di destra, sinistra e centro, lo osannava per la sua dedizione al lavoro!

Ah quanti servizi sul fatto che avesse cinque BlackBerry (fortunatamente per lui i moderni smartphone e tablet riescono a configurare più account di posta nello stesso dispositivo, evitandosi il peso!) o che spendesse più tempo in cielo, fra Torino e Detroit, che a casa propria. “Quando dorme?“, gli chiese una volta un giornalista, estasiato da tale capacità lavorativa. “Spesso dormo in aereo, quando ho più tempo“, rispose il manager italo-canadese. A proposito dell’AD di FIAT un’altra stortura alla quale si è giunti è relativa al rapporto salariale fra il manager e l’operaio. Fino agli anni ottanta-novanta tale rapporto non aveva mai raggiunto cinquanta. Per parlare con dati attualizzati, se un operaio ha una retribuzione annua (lorda) di 20 mila euro, al più l’amministratore delegato raggiungeva il milione e spesso nemmeno. Oggigiorno invece Sergio Marchionne ha superato i 7 milioni di euro, cioè 350 volte quello che guadagna un suo operaio (in Italia). Si può ritenere che forse l’AD di FIAT non ha la benché minima percezione delle condizioni di vita del proprio operaio-tipo proprio in forza del differente potere economico che i due hanno sul mondo senza per questo mancare di rispetto al dio lavoro?

Morti sul lavoro, morte per troppo lavoro, droga, workaholism, straordinari, divari salariali, vacanze di lavoro, obbiettivi, planning: ok accetto che questo sia il prezzo del mondo contemporaneo perché finora è andata così.

Ma almeno chiedo un favore: smettiamola di parlare di modernità! Tutto accetto ma essere preso in giro no!

Non si può spacciare per moderno un mondo del lavoro dove la gente muore per scarsa sicurezza (spesso perché le imprese risparmiano sugli strumenti per garantirla), dove un ragazzo di venti anni crepa perché non può nemmeno andarsi a fare un bagno in piscina qualche ora in tre giorni consecutivi in piena estate; dove dei dirigenti aziendali sono così ossessionati dai risultati e dai loro obbiettivi da impasticcarsi per aumentare la concentrazione; dove nemmeno quei quindici giorni a cavallo di ferragosto sono liberi da mail, telefoni e diavolerie.

No, per favore, chiamatelo odierno, perché di moderno – questo lavoro – non ha proprio nulla!

È tanto antico e si chiama schiavitù.

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