Il fallimento di un ideale
Non sono bastate le crisi in Tunisia, Libia ed Egitto; non è servita a niente la guerra in Libano di oltre cinque anni fa; non bastò a suo tempo il genocidio in Kossovo, nel 1999, per far sì che il Vecchio Continente giungesse finalmente alla maturità e si appropriasse di un ruolo che – volente o nolente – le spetta di diritto e soprattutto di dovere.
La crisi umanitaria in Siria, con le sempre più probabili scoperte dell’utilizzo del gas sarin da parte del regime di Assad, e il casino egiziano dovuto alla deposizione di Morsi da parte dei militari, hanno ulteriormente confermato – se mai ce ne fosse stato ancora bisogno – di quanto lontano sia il raggiungimento dell’ideale dell’Unione Europea che i padri fondatori, da Adenauer a Spinelli, da Schumann a De Gasperi, avevano pensato fosse lo scopo per un continente che ha versato tanto, troppo, sangue nel XX secolo.
Come accade ogni volta che nel Mediterraneo si sviluppa una crisi, dopo un po’ di fuochi d’artificio di alcuni paese europei, le cancellerie comunitarie, troppo impegnate nel far quadrare i loro conti e con l’ossessione per la moneta unica, come se soltanto l’economia fosse centrale in questo mondo, si trovano nuovamente ad aspettare cosa fa la signora maestra, l’America.
Ed è singolare ascoltare tutti i tromboni di sinistra, coloro che si stracciano le vesti nei confronti delle ingerenze statunitensi, che gridano allo scandalo per la grazia a Joseph Romano da parte di Giorgio Napolitano (ormai nemico pubblico numero uno della stampa berlusconiana e grillina), che strepitano per la sudditanza psicologica dei governi europei nei confronti dell’aquila calva, pretendere successivamente che gli americani continuino a fare quello che ormai dal primo conflitto mondiale hanno il compito di fare: prendersi cura del mondo e soprattutto di ciò che accade ai confini della Vecchia Europa, specialmente da quando non c’è più il nemico comunista.
Siamo sempre critici, noi della sinistra europea, con quell’aria un po’ snob di chi ha avuto i maggiori pensatori del socialismo e del marxismo, con i nostri alleati oltre oceano. Sempre pronti a bacchettarli, talvolta giustamente – per la pena di morte ad esempio – altre volte un po’ meno, quando i cowboy del mondo sono costretti – dall’irrilevanza degli altri – a occuparsi anche di ciò che sarebbe dovere dell’Unione Europea affrontare: la sicurezza dei propri confini e la difesa del proprio mare.
E lo si è visto plasticamente in questa estate, con le piazze infuocate del Cairo, che l’Unione Europea è lungi dal divenire un serio soggetto internazionale, in grado di contare qualcosa nel mondo. E si è visto in quell’occasione cosa significhi non avere una politica estera e di difesa unica, con stucchevoli riunioni a 27 degli ambasciatori e nemmeno una seria del Consiglio dell’Unione Europea.
E così – come ormai sta accadendo da troppo tempo – la badante del Vecchio Continente è costretta a supplire all’assenza di quello che sarebbe il più normale interlocutore per questa area del Mediterraneo, non fosse altro perché l’enorme mole di profughi e rifugiati – che prevedibilmente potrebbero continuare a scappare dal regime di Damasco – si riverseranno sulle nostre coste e non di certo su quelle della Florida.
Ma le cancellerie europee sono tutte impegnate a curare il loro particolare, aspettando queste elezioni tedesche come gli ebrei aspettano la venuta del Messia, ossessionati da bilanci comunitari, spread, bond e moneta unica. Nel nostro Paese – come se la crisi economica non ci togliesse già abbastanza il sonno – siamo tutti ostaggio della fine politica di un uomo che – nel bene (poco) e nel male (molto) – dopo venti anni di dominio incontrastato sulla scena pubblica non vuole saperne di andare via.
E paradossalmente, ieri sera, eravamo quindi tutti appesi alle dichiarazioni di un uomo che – se fosse stato un politico italiano – nemmeno sarebbe stato lì dietro quel podio, ma sarebbe stato rottamato, per essere stato Senatore del Massachusetts per quasi trenta anni e soprattutto trombato alle elezioni presidenziali del 2004 da quel Giorgino Bush che qualche danno poi avrebbe fatto.
Il problema però è che la signora maestra stavolta non muore proprio dalla voglia di intervenire: il 60% degli americani non è proprio d’accordo, anzi non ne vuole sapere. E i sondaggi – oltreoceano – sono una cosa seria, non il giochino per i politici che sono qui da noi, che poi ci vengono pure proibiti nelle ultime due settimane di voto, semmai il popolo bue potesse farsi un’idea do come stanno andando le cose.
L’America ancora una volta interverrà, ci toglierà le castagne dal fuoco e poi – quando il costo in termini elettorali sarà troppo elevato (il prossimo anno si vota per le elezioni di medio termine, mentre quest’anno per qualche governatorato fra i quali il New Jersey dove spera nella riconferma Chris Christie per poi lanciarsi verso la conquista della Casa Bianca dopo Obama) se ne tornerà a casa, lasciando l’Unione Europea ancora più scassata di quello che è, condannata all’autodistruzione da un’inetta classe dirigente inadeguata ai tempi, che a Kohl, Prodi, Ciampi, Schroeder, Mitterand, Chirac, Delors, solo per citare coloro che hanno portato a conclusione il primo percorso di unificazione del continente europeo, non sarebbe nemmeno degna di allacciare le scarpe.