I bambolotti dell’umanità
Sembrano i pupazzetti e le bambole di mia figlia, quando la piccola immagina di giocare all’ospedale e di curare le sue piccole creature: li distende sul suo letto, rigorosamente in fila, li copre con un telo e ci invita a fare silenzio, perché “devono riposare“. “Stanno male“, ci informa, e li lascia lì. Sul letto. A dormire.
Hanno lo stesso sguardo sereno e pacifico di quei giocattoli, che sembrano sempre così felici e rilassati, curati dalle mani amorevoli della loro mamma o della loro pediatra. Non sono però bambolotti: sono veri. Non sono riuscito a guardare per più di due secondi di seguito le immagini che provengono dalla Siria e che – se ne confermeranno l’autenticità – proverebbero l’utilizzo di gas nervini contro la popolazione civile da parte del governo siriano di Assad.
A circa duemila miglia dalle coste siriane, altri civili, altri bambini, raggiungono ormai quotidianamente le nostre coste, a bordo di carrette del mare: tirano un sospiro di sollievo i genitori di questi piccoli, ce l’hanno fatta.
Non sono morti in mare, come è capitato a decine e forse centinaia di migliaia prima di loro. Non sono annegati sulla spiaggia, a pochi metri da altri individui che trascorrevano sugli arenili di quel posto così lontano, la Sicilia, le loro vacanze. Tirano un sospiro di sollievo per i loro pargoli, ancora stipati come le sardine su queste imbarcazioni che forse soltanto la carità del loro Allah, grande e misericordioso come recita il Corano, ha tenuto in piedi e ha consentito loro di attraversare il Mediterraneo.
E poi ci sono loro: i bambini.
Le telecamere di SKY TG 24, che copre da Siracusa l’ennesimo sbarco di quelli che alla Lega piacerebbe definire clandestini, per poter sbraitare più di quanto già fa, e che invece sono profughi che chiedono asilo, indugiano quasi timidamente sui loro sguardi. Hanno paura, si vede, cercano di studiare il luogo dove quell’estenuante e lunghissimo viaggio li ha condotti. Fa impressione – per chi ne conosce le dimensioni e la bellezza – guardare l’isola di Ortigia invasa da questa umanità che fugge da casa propria perché qualcun altro – in nome non si capisce più di cosa – li obbliga a fuggire, nel timore – sempre più fondato – che possano finire la loro vita dentro un sacco bianco, lì per terra: un semplice numeretto nell’orrenda statistica dei conflitti.
Arrivano sulle nostre coste perché cercano un posto migliore nel quale vivere e nel quale far crescere i propri figli.
Sono rifugiati politici, racconta il sindaco della città aretusea, e sembra siano diretti in Germania. Sono loro forse a sperare maggiormente nella nostra Unione Europea: si sobbarcano un viaggio della speranza al centro del Mediterraneo, che è anche il loro mare, non soltanto il nostro, come stupidamente siamo spesso portati a pensare.
E mentre noi siamo come ossessionati dai numeri, alla crisi dell’euro, al debito pubblico, alla troika, e pensiamo all’Unione come a una gabbia dalla quale fuggire, mentre da noi ci sono politici che agognano di vincere le elezioni per poter esprimere un Primo Ministro che nel secondo semestre del prossimo anno dovrà presiedere il Consiglio di questa bistrattata Unione e fare un altro po’ di casino, per tutta questa gente l’Unione Europea – terra di diritti e di benessere – è una sorta di Terra Promessa, come quella di Abramo e di Mosè.
Si assumono dei rischi pazzeschi, affidandosi a delinquenti che non esiterebbero a buttarli via se soltanto ci fossero problemi in mare aperto.
Viaggiano di notte e di giorno e poi – in prossimità delle coste della Trinacria – vengono abbandonati al loro destino, con la consapevolezza che la nostra Guardia Costiera e la nostra Marina Militare manderanno corvette e fregate a recuperarli, e privilegeranno prima il salvataggio dei rifugiati e poi la caccia a loro, ai delinquenti.
A qualche migliaio di chilometri più in là, in Egitto, una delle terre di più antica civiltà, si cammina su un filo sempre molto sottile che può portare – se spezzato – al baratro della guerra civile. Paradossalmente, dopo averne festeggiato la liberazione da Mubarak, noi occidentali, sempre con la puzza sotto il naso, avevamo accolto le libere elezioni nella terra dei faraoni come una fresca ventata di democrazia, come il trionfo della nuova strategia obamiana del dialogo con l’Islam, salvo poi ritrovarsi con il rischio di un Medio Oriente estremizzato e per niente laico, non più una sola Teheran, ma cento mille piccole entità fondamentaliste.
E mentre questi poveri cristi giungono sulle nostre coste, l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America appaiono come spiazzati, come se non fosse stato prevedibile che il regime di Assad si trovasse ormai alla fine e un colpo di coda, di questo caimano del deserto, fosse – tutto sommato – scontato. Adesso anche l’amico Putin si sta accorgendo che forse il governo siriano non può più continuare a stare al suo posto e che il tempo – anche per Assad – è terminato. Certo c’è la concreta possibilità che un’altra Teheran venga a crearsi, dalle ceneri di Damasco, ma non è certo con la indifferenza e la tolleranza verso questo dittatore che Stati Uniti, Russia e Unione Europea riusciranno a contenere la deriva fondamentalista.
Lo sa bene anche mia figlia che è l’esempio a far crescere.
Ci sarebbe da chiedersi che razza di esempio stiamo dando, noi europei, occidentali, americani, a queste popolazioni per far sì che si fidino di noi e riescano a liberarsi dal giogo delle dittature, senza che ci si renda conto che quei bambolotti, in fila ordinata dentro il sacco bianco, sono anche i nostri, non sono soltanto siriani, egiziani, tunisini, iracheni e potremmo continuare all’infinito per tutte le zone calde e incandescenti del pianeta.
Sono anche e soprattutto i nostri: perché siamo noi, i paesi più ricchi e avanzati del pianeta, che abbiamo l’obbligo morale che non ci siano più madri che singhiozzino di fronte ai loro bambini e padri che vengano sorretti perché non riescono a reggere il più grande dolore che un genitore possa mai sopportare.