Il gran rifiuto
Basta leggere i resoconti parlamentari, le agenzie di stampa e le varie interviste sui quotidiani, digitali o cartacei che siano, per comprendere bene che la crisi economica – iniziata cinque anni fa a insaputa dell’allora Governo Berlusconi – si è ormai trasformata in una crisi sociale, psicologica e morale.
È come se ci fosse un enorme rifiuto da un lato a volersi assumere responsabilità e oneri da parte della classe dirigente, dall’altro – tra i cittadini – viene vissuta ogni cosa come se fosse un sopruso, un inciucio, uno spreco di soldi della collettività.
C’è il rifiuto a voler semplicemente ragionare sul modello di società che vogliamo per noi e per i nostri figli, che tipo di organizzazione dello Stato sarebbe opportuna per sfidare le potenze emergenti del nostro tempo e quale possano essere le ricette per far partire il motore.
Così ci troviamo di fronte a uno stallo di proporzioni ciclopiche.
Prendiamo il caso emblematico degli F35. Il problema si è dibattuto sull’acquisto o meno di questi velivoli militari, sottolineando come essi addirittura abbiano dei problemi, tanto che persino il Pentagono sta rivedendo gli approvvigionamenti. Il punto di partenza è però – a mio avviso – sbagliato: qualunque spesa pubblica può essere vista da due opposti punti di vista. Chi è contrario all’acquisto degli F35 pone l’accento al fatto che sono strumenti di guerra, di attacco, e quindi considera uno spreco di denaro pubblico perché – come si legge in molte vignette – con quei soldi non so quante migliaia di asili nido si farebbero. Si tratta ovviamente di un confronto impietoso perché chiunque preferirebbe avere asili e bambini al posto di aerei e bombe. Il governo però di un paese avanzato e di un’economia complessa e industrializzata è qualcosa di profondamente diverso dal semplice calcolo del buon padre di famiglia. D’altronde quante volte ci siamo sentiti infinocchiare la storia del pater familias da Silvio Berlusconi nelle sue presentazioni della legge finanziaria?
Il punto non è questo. Assumiamo per buona l’ipotesi che questi aerei americani facciano schifo. Non sposta di un millimetro la considerazione generale che dovrebbe guidare la politica di difesa di un paese: vogliamo noi italiani un’Aeronautica Militare oppure pensiamo di smantellare le Forze Armate? Naturalmente molti risponderebbero di sì a questa ipotesi senza considerare che comunque, dietro le stellette e le mostrine, ci stanno spesso famiglie che mangiano grazie allo stipendio dei loro cari in divisa. E che i nostri avieri, i nostri soldati e i nostri marinai non portano offesa (la nostra Costituzione lo vieta) ma sono adoperati (e spesso molto ben stimati dalle popolazioni locali) per portare la pace in luoghi del globo tormentati da lotte spesso fratricide.
E se vogliamo un’aviazione militare non dovrebbe essere dotata dei migliori mezzi per fare il proprio mestiere? Beppe Grillo, sempre solerte quando si tratta di attaccare il PD, ha ritwittato nei giorni scorsi un cinguettio di Bersani in campagna elettorale dove affermava di voler limitare la spesa per gli F35. Ecco: il verbo dell’ex segretario democratico non era cancellare, bensì limitare. Questo perché un paese con un certo peso nel mondo deve – volente o nolente – farsi carico anche dei problemi degli altri, specialmente quando ha – nella sua Costituzione – una vocazione a fungere da paciere nelle controversie internazionali.
Tuttavia – purtroppo – non bastano i cannoni a fiori, le partite a risiko o i campionati del mondo di calcio per risolverle. Spesso è stato necessario (e lo sarà ancora perché l’uomo è fatto così) usare la forza per imporre la pace. Sembra un controsenso ma forse sarebbe il caso di chiederlo ai kosovari se stessero meglio sotto Milosevic che aveva ordinato la pulizia etnica degli albanesi o se invece preferiscono costruirsi il loro stato sovrano come stanno facendo. Semmai il discorso dovrebbe puntare non tanto sull’acquisto o meno di un determinato mezzo militare, bensì su una riorganizzazione – su scala europea – delle forze armate dell’Unione. Ma per porre al centro dell’agenda della Difesa comunitaria un argomento siffatto, che avrebbe enormi ripercussioni non soltanto sugli uomini e sulle donne in uniforme ma sull’intero comparto industriale che serve le Forze Armate, presuppone un governo serio.
E potrei ripetere lo stesso discorso fatto per il comparto difesa per tutti quei settori strategici, per le industrie nazionali e continentali, che possono trarre beneficio da una vera integrazione europea. Penso alla politica energetica comunitaria, lasciata troppo in mano nazionale con l’effetto che il potere di ricatto di oligarchi e vecchi dittatori è enorme. E i fatti degli ultimi giorni, con le vicende kazake, ne stanno dando ampia dimostrazione.
Penso alle politiche ambientali, alle politiche culturali.
Ma per porre al centro dell’agenda europea una forte integrazione su questi temi serve un Governo all’altezza dei problemi e non un governicchio nato dallo stallo di un’elezione folle di fine inverno e vittima dei condizionamenti e dei ricatti di un imperatore a fine impero.
Ma non basta purtroppo nemmeno questo: servirebbe che anche le popolazioni europee prendano coscienza che nessuno si salverà da solo e saremo condannati all’irrilevanza mondiale, senza quindi poter dire la nostra su nulla, se ciascun paese europeo penserà di continuare a fare da solo. Non si tratta di battere moneta, di creare maggior debito e di recuperare la sovranità perduta. Si tratta invece di costruire – a partire dai nostri bambini – la prima generazione veramente europea, in grado di affrontare un’agenda 2050 con lo spirito pionieristico e non conservatore.
Temo – purtroppo – che il nostro Paese (e non soltanto il nostro) sia stato ormai contagiato come da un virus, rendendo la gente incapace di ragionare sul futuro, schiavi soltanto del proprio tornaconto personale e del soddisfacimento dei bisogni del presente, anziché costruire il futuro.