L’onnisciente quotidiano

 In POLITICA

Fra qualche decennio, quando gli storici e i sociologi vorranno studiare i comportamenti della società italiana a noi contemporanea, vivisezioneranno sicuramente il fenomeno editoriale degli ultimi anni, il quotidiano fondato da Antonio Padellaro e Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano.

Il giornale che prende il nome in omaggio alla trasmissione televisiva di Enzo Biagi, cancellata dopo l’editto bulgaro di Silvio Berlusconi, è stato un grande evento che meriterà di essere analizzato a fondo per il particolare business model che sta sperimentando: non ricevere alcun finanziamento pubblico e finanziarsi soltanto attraverso i “lettori” è sicuramente una sfida interessante e dà anche informazioni sul tipo di lettori che intercetta un quotidiano.

Ed è importante anche seguire l’evoluzione della linea politica del giornale.

Com’era ovvio all’inizio è stato un quotidiano di forte opposizione al Governo Berlusconi e al berlusconismo. Mano a mano però che l’opposizione parlamentare non riusciva a scalzare la maggioranza plebiscitaria all’allora Governo Berlusconi IV, il quotidiano diretto da Padellaro ha cominciato a sposare la tesi grillina del tutti sono uguali, anticamera di ogni populismo.

Così ha cominciato la sua mutazione genetica, da quotidiano ancorato ai fatti a militante foglio contro ogni potere costituito. Da cane da guardia quale un’espressione della libera stampa deve essere per natura, a supremo censore di chiunque non sia sulla stessa lunghezza d’onda di Travaglio e Padellaro, senza che nello stesso giornale si possano leggere opinioni divergenti. Insomma un giornale dove le firme sono tutte allineate all’unisono. Ne fa le spese anche un vaticanista molto bravo, Marco Politi, già firma di Repubblica e passato recentemente alla scuderia del Fatto. Nel commentare la prima enciclica di Francesco, la Lumen Fidei, il giornalista si sofferma nuovamente, dopo gli eventi di febbraio, sulla scelta di Benedetto XVI di appellarsi Papa Emerito dopo la sua rinuncia. Afferma, il vaticanista, che sarebbe stato meglio indossare un saio grigio e riferirsi come “Padre Benedetto“, espressione a suo dire più nobile. Sicuramente vedere un papa che da bianco si vesta di grigio era un’ipotesi suggestiva, ma come si è già detto durante il mese che ha sconvolto la storia della Chiesa, riprendendo le parole di Bertinotti, le faccende religiose devono leggersi con occhi non puramente politici. Innanzi tutto perché il Papa è un vescovo, di Roma appunto, come sottolinea sempre proprio Bergoglio, cioè un successore dei Dodici. Proprio il diritto canonico prevede che qualora il conclave elegga un battezzato non vescovo, prima dell’annuncio dell’Habemus Papam egli venga ordinato sacerdote (se fosse laico, ovviamente) e consacrato vescovo. Ma dallo stato episcopale non ci si può dimettere, per usare un termine mondano: semel episcopus semper episcopus, proprio perché successore degli Apostoli di Cristo. La stessa questione della veste è pretestuosa: non è soltanto la veste bianca a caratterizzare un pontefice, ma anche la pellegrina, simbolo della titolarità di una diocesi, cioè di un gregge da pascere. E questo indumento Benedetto XVI non lo indossa. Ma i vaticanisti del Fatto evidentemente non raccontano la simbologia cattolica, bensì la plasmano secondo i loro desiderata, confondendo una gerarchia militare con quella ecclesiastica. È evidente che non essendoci precedenti storici vicini, in un’era nella quale la contemporaneità degli eventi è ormai un must, papa Ratzinger ha dovuto inventarsi una soluzione per se stesso. E fedele al fatto che vescovi si è per sempre, Benedetto XVI non poteva non considerare che egli, già arcivescovo di Monaco, era stato eletto nel 2005 ad un’altra diocesi, a quella più importante perché presiede nella carità tutte le altre: la diocesi di Roma. Joseph Ratzinger non è quindi un semplice vescovo che va in pensione ma è un Pontefice della Chiesa Cattolica e quindi, semel pontifex semper pontifex.

E se la questione del titolo papale è forse secondaria, se non per la valenza storica di questo evento, quando si scende nell’attualità politica l’arroganza e la saccenteria del Fatto diventa enorme. Ormai sposando la tesi grillina del tutti uguali e seguendo la pancia e la rabbia della gente, rinunciano a qualunque esercizio del dubbio, bensì a cavalcare l’onda della protesta e a demolire – anche moralmente – chiunque possa esprimere qualche perplessità.

Commettono al Fatto lo stesso errore che spesso i cattolici impegnati in politica compiono: confondere il peccato con il reato. Così ad esempio nel raccontare il processo sulla trattativa stato-mafia, Marco Travaglio sposa aprioristicamente le tesi dell’accusa, della Procura di Palermo e di Antonio Ingroia, senza spiegare i passi del processo stesso, la procedura, come se la liturgia laica del processo penale, fosse un orpello. Allora quando il professor Giovanni Fiandaca, giurista e già candidato alle primarie del centrosinistra per la provincia di Palermo, osserva che non è detto che il reato possa essere provato in un’aula giudiziaria, ecco che Travaglio attacca il giurista, anche sul piano personale (ovviamente poi ricambiato!), che ha semplicemente esercitato il giusto dubbio di chi si pone davanti a un evento enorme come la trattativa con Cosa Nostra. Preciso una cosa per non essere frainteso: chiunque rifiuterebbe anche solo prendere il caffè con un boss della mala, ma il confine fra peccato e reato dovrebbe essere caposaldo dello stato di diritto di un paese civile. E dovremmo tutti pregare che questa trattativa, sulla pelle del giudice Borsellino, non ci sia stata, perché prima che si attesti un reato di natura penale – che per definizione è personale in quanto la responsabilità penale è di natura personale – è un peccato laico, un obbrobrio ma che purtroppo spesso è capitato: ad esempio gli americani trattarono con Cosa Nostra dopo lo sbarco in Sicilia.

Ma sulla questione della trattativa al Fatto hanno le idee chiarissime e chiunque si frapponga fra le loro tesi e il dubbio è un nemico da abbattere, da contrastare e da offrire sull’altare del sacrificio quotidiano con il lettore incazzato del loro giornale. Così fu all’epoca delle intercettazioni del Presidente della Repubblica tanto che le reazioni alla sentenza della Consulta, sul conflitto di attribuzioni sollevato dal Capo dello Stato, furono tali e quali a quelle che spesso abbiamo ascoltato in bocca a un imputato eccellente: Silvio Berlusconi. Giorgio Napolitano quindi diventa una specie di dictator, un Re senza regno, un avversario nel raggiungimento dell’eden promesso dal foglio di Padellaro e Travaglio.

Mentre su Repubblica si scontrano – anche fortemente – firme pesanti quali quelle di Zagrebelsky, presidente emerito della Corte, e Scalfari, e ci sono mille sfumature nei commenti di Bolzoni, Spinelli, Cordero, e il direttore Mauro, sapientemente, espone una linea di grande fiducia nello stato di diritto e nelle libere scelte della Corte Costituzionale, al Fatto hanno già deciso tutto e quindi – quando la Consulta si schiera a favore dell’inammissibilità delle intercettazioni telefoniche anche indirette del Capo dello Stato – Travaglio e i suoi attaccano la Consulta, il Capo dello Stato, tutti i giornali che non la pensano allo stesso modo.

Da quel momento comincia una militanza anti Colle che sposa in toto anche le più bizzarre idee costituzionali di Beppe Grillo, ergendo il Movimento Cinque Stelle a defensor fidei del popolo laico italiano.

Ne fa spesso le spese Pierluigi Battista, editorialista del Corriere, reo probabilmente di aver preso il posto di Biagi su Rai Uno dopo l’editto bulgaro e come tale – per definizione – colluso con il potere. La colpa di Battista è quella di essere ignorante in materia giudiziaria, a differenza di Travaglio che ne ha fatto un merchandising efficace. Ultimamente il giornalista del Corriere ha esposto perplessità sulla sentenza Ruby. Ora anziché esprimere rispetto per l’opinione altrui, al Fatto lo demoliscono come fosse un venduto.

Chiarisco una cosa: non la penso affatto come Battista e anzi sono della stessa opinione di Peter Gomez, direttore del sito ilfattoquotidiano.it, che intervistato dopo la sentenza del processo milanese si è detto sorpreso dell’applicazione più dura, da parte del collegio giudicante, della pena per la concussione, inflitta a Berlusconi. Afferma Gomez che il reato contestato dalla procura milanese fosse di concussione per induzione, mentre il Tribunale lo ha giudicato colpevole di concussione per costrizione, ragion per cui la pena è stata aumentata di un anno per quel reato.

Battista non la pensa così, non ritiene molto fondata l’accusa e ha una sua opinione. Ma non cerca di certo di imporla a tutto il giornale e a tutti i suoi lettori, cosa che invece al Fatto – probabilmente proprio per la tipologia dei suoi lettori – invece sistematicamente fanno.

Ormai è un giornale onnisciente, conoscono tutto e chiunque possa avere una opinione differente, semplicemente frutto del dubbio che ciascuno di noi può possedere è un venduto.

 

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