Un nuovo genere letterario

 In POLITICA

Quello al quale abbiamo assistito ieri in diretta dall’aula di Montecitorio è la nascita di un nuovo genere letterario e oratorio: il cazziatone d’insediamento. Nessuno, nemmeno fra i più anziani osservatori e commentatori, coetanei del Capo dello Stato, avevano mai assistito ad un discorso di inaugurazione di mandato così forte, duro e condito di sonori schiaffi a tutto quel Parlamento, quei rappresentanti del popolo sovrano, che non sono riusciti nemmeno ad eleggere un successore di Giorgio Napolitano.

Sono stati schiaffi sonori proprio al suo partito di origine, il PD, che ha addirittura impallinato prima uno dei fondatori – Franco Marini – e poi come se non bastasse proprio l’ideatore dell’alleanza che porto l’ex PDS al Governo, l’Ulivo, proprio quel Romano Prodi che era stato addirittura chiamato dall’Africa, da un evento internazionale delle Nazioni Unite, per tornare in Italia da Presidente eletto.

Sono state sberle sonore date al partito di Berlusconi che per la maggior parte del precedente mandato di Napolitano ha governato male il Paese e non ha fatto nulla di quello che aveva bisogno l’Italia, badando soprattutto agli interessi particolari che nel caso del PDL coincidono con quelli del padrone.

Sberle a tutti e persino un buffetto sulla guancia al Movimento Cinque Stelle, lodato per aver portato partecipazione nuova alla politica, ma strigliato per non comprendere che c’è differenza fra piazza e istituzioni, fra rete e partiti fatti di persone in carne e ossa e non soltanto di nickname.

E soltanto la malafede di un quotidiano come Il Fatto Quotidiano e la profonda ignoranza istituzionale e costituzionale dei parlamentari pentastellati, che evidentemente si fermano soltanto alla prima pagina di quel quotidiano, senza nemmeno sfogliarlo, basandosi – per formarsi un’opinione – soltanto sugli editoriali di Antonio Padellaro, Paolo Flores d’Arcais e Marco Travaglio, ha potuto leggere nella accettazione del reincarico e nelle parole del Presidente della Repubblica un atteggiamento mafioso, come un qualunque padrino di Cosa Nostra.

Resterà indelebile – nella cronaca di questi giorni difficili – accanto alla dura reprimenda che il Capo dello Stato ha pronunciato ieri, scevra di ogni retorica tradizionalmente presente nei discorsi di insediamento –  la macchia che hanno compiuto direttore e vice direttore del Fatto Quotidiano al loro mestiere di giornalisti e cronisti.

La volgarità con la quale ieri si è espresso Marco Travaglio, senza nemmeno avere il talento artistico del suo amico e adorato dio politico Beppe Grillo, ha raggiunto un livello di giornalino di quarto ordine. Non si era mai visto, nel suo consueto editoriale giornaliero, sparare così contro il Presidente della Repubblica, nemmeno di fronte a ben altri Presidenti, che sull’onda di polemiche e di scandali hanno persino rassegnato le dimissioni.

E stamani, di fronte al discorso del Capo dello Stato, anche il direttore del quotidiano grillesco non le ha certo mandate a dire al Presidente, quasi come fosse complice di un reato efferato.

E proprio loro, ai quali poi quei 160 ignoranti (salvo alcuni che purtroppo non riescono mai a prevalere) ben guidati da due personaggi da cartoni animati quali Vito Crimi e Roberta Lombardi, non hanno minimamente spiegato la differenza che passa fra la polemica politica e l’attacco alla Costituzione, implicitamente avallando l’assurda tesi grillesca del colpo di stato, poi derubricato furbescamente al golpettino, di fronte ad una giornalista cilena che forse di golpe conosce il significato meno comico di quello che noi – fortunatamente – possiamo conoscere.

E in forza di questa loro ignoranza istituzionale e costituzionale i parlamentari pentastellati hanno rilasciato un comunicato che ha dimostrato che proprio non sono riusciti a comprendere il discorso del Presidente della Repubblica e ancora una volta, anziché rilanciare su un governo di coalizione, hanno gridato all’inciucione!

Eppure Giorgio Napolitano era stato chiaro: il governo si forma se c’è una maggioranza in ambo i rami del Parlamento, soprattutto certa. Ma costoro, ben supportati da quel marpione che li dirige a bacchetta da una bella villa a Genova o da un’altra in riva al mare, quando non si trova a girovagare le piazze in camper sobillando la folla esausta dalla crisi economica, hanno sempre preteso di più ed hanno sempre rifiutato ogni possibilità di accordo con il Partito Democratico e il suo ormai ex leader Pierluigi Bersani.

Hanno voluto una diretta streaming dell’incontro con il dimissionario segretario del PD soltanto per ridicolizzarlo con quel patetico “sembra di stare a Ballarò …. noi non parliamo con le parti sociali perché noi siamo le parti sociali …“, due fra le grandissime perle pronunciate da Roberta Lombardi, l’acida e saccente capogruppo alla Camera del Movimento Cinque Stelle.

Poi mano a mano che si capiva che la situazione fosse bloccata perché la segreteria del PD era contraria ad un governissimo, evidentemente e segretamente agognato dal Movimento per poter gridare sempre il motto “la casta, la casta“, ecco che si sono svegliati, si sono inventati delle consultazioni on-line, alle quali il Paese deve credere come i cattolici credono al dogma dell’Immacolata Concezione o dell’Assunzione di Maria Vergine in cielo, e hanno partorito una candidatura enorme, di sinistra, che ha messo in difficoltà proprio il PD. E sebbene – come scritto in queste pagine nei giorni scorsi – il Partito Democratico ha perso l’occasione per sbattere fuori Berlusconi dalle stanze dei bottoni, anche Grillo e i suoi hanno perduto l’occasione di dimostrare che siano realmente diversi dai vecchi politici politicanti.

Dal momento in cui Rodotà non saliva nei voti, perché non votato sufficientemente – con ragioni che non condivido – da tutto il PD per eleggerlo al Quirinale, non si capisce di certo perché il Movimento Cinque Stelle – se avesse avuto veramente a cuore l’Italia – non abbia deciso di convergere su Romano Prodi ed aprire veramente – coi fatti – una stagione nuova. Hanno preferito assistere alla disfatta del PD, obiettivo non dichiarato ma palese di Grillo e i suoi, poiché si tratta dell’unico vero partito non padronale del panorama politico italiano.

Ma ciò che è imperdonabile, per i pentastellati e per i loro beniamini del Fatto, è che dipingano Giorgio Napolitano come una sorta di capo dei capi di Cosa Nostra.

Perché si può essere contrari al metodo che ha portato alla sua rielezione, si può essere contrari a tutta la classe dirigente di questo Paese, anche se c’è da obiettare che ormai da due mesi ci sono anche loro a livello Nazionale e un po’ di più a livello locale, ma non si può offendere un uomo della caratura del Presidente della Repubblica, che ha certamente commesso tanti errori – dai fatti di Ungheria del 1956 al poco coraggio del dicembre del 2010 (anche se nessuno immaginava la compravendita dei deputati avesse successo, noi poveri illusi!) – ma non lo si può additare come artefice della sua rielezione, in riunioni da cupola mafiosa, brigando contro il popolo.

E del cazziatone di Giorgio Napolitano rimane infine la triste e amara sensazione che egli sia ormai – anagraficamente parlando – l’ultima roccia alla quale aggrapparsi, l’ultimo padre della patria, perché la generazione successiva alla sua, quella dei sessanta-settantenni ha miseramente fallito negli ultimi venti anni. Non è un caso che al Quirinale – salvo l’eccezione di Francesco Cossiga che comunque faceva parte di una certa generazione politica anche se aveva 58 anni al momento dell’elezione – siamo sempre costretti a cercare uomini provenienti dal ventennio precedente la seconda guerra mondiale.

E forse il compito della generazione mia, dei quaranta-cinquantenni è quello di costruire una classe dirigente indipendente da quella precedente e che riesca a trovare delle personalità condivise tali da poter assurgere, nei momenti eccezionali, a padri della patria.

Ma per quello che abbiamo visto nelle ultime settimane, con giovani sempre più arrivisti e sfrontati e adulti sempre invischiati nei loro giochetti, non ci resta che sperare che questo ultimo anziano, baluardo dei principi costituzionali e repubblicani che ha contribuito a fortificare nel tempo, abbia ancora un altro po’ di vita davanti. Perché purtroppo dopo di lui non si intravedono giganti, ma soltanto nani della politica, lillipuziani delle istituzioni.

p.s. Mentre termino questo post, Beppe Grillo pubblica i numeri delle Quirinarie, che riporto di seguito. Ogni commento che non sia ridicolo mi sembra superfluo! La cittadina di mia moglie, la bellissima città ducale Spoleto, e il paesino etneo dove sono sempre cresciuto dall’età di tre anni, Mascalucia, hanno più aventi diritto di quelli che si sono espressi alle Quirinarie.

I voti espressi sono stati 28.518, così ripartiti:
– Gabanelli Milena Jole: 5.796
– Strada Luigi detto Gino: 4.938
– Rodotà Stefano: 4.677
– Zagrebelsky Gustavo: 4.335
– Imposimato Ferdinando: 2.476
– Bonino Emma: 2.200
– Caselli Gian Carlo: 1.761
– Prodi Romano: 1.394
– Fo Dario: 941

 

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